Cesare Manganelli

La strage del carcere di Alessandria, la lotta armata
e la strategia politica dei Nuclei armati proletari (1974-1975)

 

Appendice 1

Tutto è iniziato verso le 10 della mattinata all’interno delle aule del carcere, dove si tengono i corsi per il conseguimento del Diploma di Geometra. Alle lezioni si presentano tre detenuti con due borse. (…) Dalle borse estraggono due pistole ed un coltello e iniziano “il rastrellamento”. Portati o fatti confluire, dicendo che qualcuno sta male, gli ostaggi vengono raccolti nell’infermeria. Ai professori che erano in quel momento nelle aule si aggiungono anche sei guardie carcerarie e il medico Gandolfi, mentre i detenuti degenti sono solo potenzialmente in ostaggio. (…). Non considerando i degenti dell’infermeria, gli ostaggi catturati sono alla fine sei insegnanti, sei guardie carcerarie, il medico Gandolfi e un detenuto infermiere. Tra banditi e ostaggi, nonostante l’esibizione delle armi, non c’è forte tensione. Non ci sono né urla, né imprecazioni. In larga misura essi si conoscono e questo contribuisce a non drammatizzare la situazione e a far ritenere del tutto improbabile un epilogo tragico. Concu, Levrero e Di Bona, con le armi in pugno, hanno così dato avvio al loro tentativo di evasione. Gli altri detenuti, all’inizio, non solo non reagiscono e non partecipano, ma neppure comprendono esattamente quello che sta avvenendo. (…) Uno dei primi ad essere avvisati e a giungere sul posto è il Procuratore della Repubblica Buzio. Quando riceve la notizia egli è nel suo ufficio al palazzo di Giustizia e con lui c’è l’assistente sociale Giarola Vassallo. Mentre si recano al carcere la Giarola, che conosce i detenuti e il Concu in particolare, manifesta l’intenzione di offrirsi come ostaggio. Non è in questo ostacolata dal Procuratore Generale di Alessandria; infatti non si tratta di un improvviso desiderio di martirio, ma della scelta precisa di aprire subito la trattativa e di farlo nel modo migliore. Il colloquio fra il P.G. e i banditi è abbastanza teso. Quando ridiscende dal piano dell’infermeria la Giarola non è più al suo fianco: si è andata volontariamente ad unire agli altri ostaggi. Da quella posizione ella può condurre meglio la sua opera di mediazione, appoggiata all’esterno dal Procuratore Generale Buzio che di fatto si è assunto la responsabilità della scelta. (All’epoca dei fatti gli assistenti sociali dipendevano direttamente dalla Procura). Questo tipo di apertura della trattativa da parte della magistratura alessandrina sottointende una condotta di azione che esclude, in partenza, il ricorso alla soluzione di forza. Questa impostazione era di fatto suggerita anche dal dottor Gandolfi, il quale aveva preso atto che le pistole impugnate da Concu e Di Bona erano vere. (…). Sul funzionamento delle armi il Di Bona toglierà ogni dubbio esplodendo un colpo a scopo dimostrativo durante la trattativa ufficiale (…).
Il piano di emergenza scatta soltanto dopo quasi un’ora, alle 11,00. A questo punto affluiscono davanti al carcere carabinieri e polizia con graduati e funzionari locali (…), Nel giro di poche ore si aggiungono l’Ispettore carcerario per il Piemonte e la Lombardia De Mari, il capo della Criminalpol Montesano, il generale dei Carabinieri Dalla Chiesa e il Procuratore Generale di Torino Reviglio Della Veneria. Queste autorità torinesi fanno direttamente capo al Ministro dell’Interno Taviani, con cui sono in contatto costantemente (…).
Il Procuratore generale Reviglio Della Veneria e il suo braccio destro dalla Chiesa prendono in breve il monopolio assoluto della situazione, facendo uso esclusivo del potere decisionale. (…). Verso le 15 il P.G. Buzio e il suo Sostituto Parola salgono per stabilire un contatto con i tre bandirti. Essi rispondono dettando i criteri con cui si deve tenere la trattativa ufficiale: il P.G.  di Torino deve venire accompagnato da tre giornalisti che presenzieranno. (…) Le condizioni poste dai tre detenuti vengono riferite, ma solo alle 17,30 il P.G. Reviglio della Veneria si reca a parlamentare. (…) Dopo questa pausa il Concu si rifà vivo, riconsegna a Reviglio della Veneria la sua tessera, ritenendosi convinto della sua identità; dopo di che consegna nelle sue mani il testo dattiloscritto delle condizioni per il rilascio degli ostaggi e per la fuga (…)

 

Ecco il testo:


“Gli ex detenuti. L’azione è stata provocata praticamente dal comportamento irresponsabile del Governo che si ostina da anni a non concedere la riforma del sistema penitenziario e del codice penale.  Se essi fossero stati riformati noi avremmo potuto uscire, quindi, stanche di essere presi in giro, decidiamo di prenderci ciò che ci spetta. Togliendoci la recidiva soltanto, noi saremmo già liberi, quindi tali ci riteniamo. Attraverso la nostra azione potete ben comprendere che siamo decisi a tutto, quindi niente discorsi inutili. Sappiamo precisamente quello che facciamo e ciò che vogliamo ottenere. Poiché non siamo degli sprovveduti, tutt’altro, abbiamo un buon bagaglio di esperienza, sarebbe quindi inutile e deleterio ogni vostro tentativo per ingannarci o sopraffarci, non pensate nemmeno lontanamente di usare qualsiasi mezzo di quelli già usati in simili circostanze perché questa volta si rivelerebbero inefficaci e catastrofici per gli ostaggi. Anche ai cecchini non daremo nessuna possibilità di abbatterci in quanto al massimo potranno avere sotto mira un ostaggio, e, se eventualmente qualcuno di noi fosse abbattuto, i rimanenti eliminerebbero immediatamente tutti gli ostaggi. Non sottovalutateci perché la nostra preparazione è accurata. A Catalafimi Garibaldi disse a Nino Bixio “da qui si esce tutti o si muore tutti”. Come disse Sansone: “Muoia Sansone con tutti i filistei”. Quindi per noi non esiste né resa né accordi che non siano strettamente aderenti alle nostre richieste. Aggiungiamo che dall’inizio dell’azione ci sentiamo votati al suicidio, quindi pronti a tutto. Ora leggete attentamente ed eseguite alla lettera le seguenti richieste: 1) un pulmino con cui intendiamo lasciare il carcere insieme agli ostaggi che poi verranno rilasciati appena saremo in condizioni di dileguarci. Il pulmino dovrà essere posto all’interno del carcere, precisamente nell’area della lavanderia, da cui intendiamo partire. La parte anteriore deve essere rivolta verso l’uscita e tutte le portiere devono essere lasciate spalancate; per ciascun finestrino devono essere applicate tendine non trasparenti. La nostra partenza deve essere accompagnata da due battistrada (motociclisti della polizia) che prendano posizione fuori dal carcere; essi servono per salvaguardare l’incolumità degli ostaggi  in modo che non possano capitare equivoci con le altre forze dell’ordine, naturalmente la suddetta scorta rimarrà a nostra disposizione fino a quando lo desidereremo. Se quanto sopra richiesto non sarà concesso entro 4 ore  a partire dalle 9 di domani mattina, allo scadere dell’ora prefissata verrà ucciso un ostaggio sorteggiato dal gruppo, ciò si ripeterà ogni mezz’ora. Vogliamo che vengano immediatamente avvertiti i giornalisti, i quali devono presentarsi a ritirare le nostre richieste (… ).


Il silenzio della trattativa viene rotto dalle raffiche di mitra alle 19.30. (…) la decisone di andare subito all’assalto non avviene di certo con l’accordo di tutte le autorità presenti, anzi. Il Procuratore Generale di Alessandria Buzio e il suo sostituto sono presenti. Essi, con la trattativa con la Giarola, hanno già dimostrato di non approvare la soluzione di forza (…). Le forze di P.S. sono pure presenti: il loro parere è contrario alla soluzione di forza in quelle condizioni, perché ritengono non essere possibile nessuna azione di sorpresa. Questa opposizione viene tacitata e le forze di Ps vengono escluse da questo compito di “ordine pubblico” che, dovendo svolgersi all’interno delle mura del carcere, è formalmente di competenza del corpo dei Carabinieri. (…) Il capo della Criminalpol, che dirige un gruppo di cecchini, già appostati dentro il carcere, avanza dei dubbi solo sulle buone possibilità di riuscita di un assalto dentro i corridoi dell’infermeria. (…) la decisione su tutti la prende, naturalmente, il magistrato di grado più elevato, il P.G. di Torino, Reviglio della Veneria. (…) L’ordine di assalto viene dato alle 19.30, momento in cui, dall’esterno, si sentono i primi spari e si vedono partire i lacrimogeni. (…) Il commando degli assaltatori è principalmente composto dai Carabinieri, a cui si aggiungono agenti della Criminalpol e guardie carcerarie, una quindicina in tutto.  Essi salgono al piano dell’infermeria, accalcandosi nello spazio ristretto del pianerottolo, poi si lanciano contro la porta iniziando contemporaneamente a sparare. I vetri vanno in frantumi. All’interno del corridoio vengono i candelotti lacrimogeni. Il fumo invade ben presto tutto il piano, ma prevalentemente la parte in cui si trovano gli assaltatori. (…)  Ancora per alcuni minuti la porta non cede, poi finalmente viene sfondata e gli assaltatori irrompono. L’azione rapidissima pensata da Reviglio e da Dalla Chiesa, è durata, nella fase inziale, 15 minuti. (…)  Incontro agli assaltatori corrono due ostaggi, sono due guardie carcerarie. Gridano di non sparare più. Nella corsia non c’è nessuno; banditi e ostaggi si sono rifugiati in fondo al braccio, in un piccolissimo locale. Dietro la porta di questo stanzino gridano ai Carabinieri: “Non venite avanti o li uccidiamo tutti”. Di fronte a questo l’azione di forza si arresta, ma ha già avuto il suo prezzo di sangue. Nel corridoio e  fra i letti della corsia ci sono infatti due uomini, uno, il dottor Gandolfi già morto, l’altro il professor Campi è agonizzante. (…) Sui due ostaggi feriti a morte non ci sono testimonianze precise o completamente attendibili, data la grande confusione del momento.  Su alcuni punti, però, tutte le testimonianze concordano. Un primo elemento molto importante è che l’assalto è avvenuto contemporaneamente dall’interno e dall’esterno del carcere. (…) Il secondo è che il dottor Gandolfi è caduto a terra contemporaneamente a questo attacco interno-esterno delle forze dell’ordine. “Il medico era accanto a lui, in piedi, vicino alle finestre dell’infermeria, stava mangiando un panino quando è stato colpito. Il proiettile veniva dall’esterno. Non sono stati i banditi a ucciderlo”. (…) Esistono anche in proposito dichiarazioni molto pesanti, come quella rilasciata ai giornalisti dalla figlia di un altro ostaggio sabato 11 maggio: “mio padre era inorridito per il massacro. Ieri mi ha detto che non sono stati i banditi a uccidere il medico. Ma può darsi che cambi versione. Gli hanno consigliato di tacere”. “La Polizia?”” No, certi politici”. (…) L’altro ostaggio che i Carabinieri trovarono a terra ferito mortalmente è il professor Campi. Che siano stati banditi, il Di Bona per l’esattezza, a colpirlo, sembra non vi siano dubbi. “Vedendolo fuggire gli hanno sparato alla nuca”. “Sì, Campi è stato ferito da uno di loro: pensavano stesse fuggendo” (…) La tesi ufficiale in proposito è nuovamente categorica: come Gandolfi, anche Campi è stato ucciso a bruciapelo, legato mani e piedi, da uno dei banditi che voleva vendicarsi, una vera esecuzione a freddo. (…) Solo verso mezzanotte una calma apparente ritorna dentro e fuori le mura del carcere. Se ne sono andate da tempo le ambulanze con i morti e i feriti. Sono usciti anche i tiratori scelti. (…) È il Concu a rompere il silenzio alla 6. Egli grida: “Avete preparato il pulmino?”. Il sostituto procuratore Parola va per l’ennesima volta a parlamentare. Da questo momento in poi inizia l’allestimento dei preparativi per l’evasione dei tre. Le istruzioni dettate dai banditi vengono seguite accuratamente. (…) Uno dei detenuti in ostaggio viene intanto rilasciato, grazie alla mediazione di Parola. Egli viene accompagnato da un altro detenuto che ritorna spontaneamente a far parte degli ostaggi. Questi preparativi, però, non convincono del tutto.  Infatti, mentre comincia a circolare insistentemente la voce che “adesso li fanno uscire”, vengono parallelamente notati l’atteggiamento  contradditorio del Sostituto procuratore di Alessandria e dei banditi  stessi, i quali dichiarano più volte: “Fateci uscire, sappiamo che tenterete di farci fuori, ma non ci importa. Vogliamo morire liberi, in strada, fuori di qui”. (…) La prima parte della mattinata è caratterizzata  dall’arrivo di parenti sia degli ostaggi che dei tre evasi. (…)  Soltanto verso le 11 della mattina ha luogo una mediazione con la partecipazione di persone esterne. (…) I primi a raggiungere un ‘accordo’ con i banditi sono tre giornalisti di Alessandria. (…) La richiesta, esposta da Concu, è che siano loro stessi a fare da scorta durante il tragitto dall’infermeria fino al pulmino, con la garanzia anche del ritiro completo dei cecchini. (…) Reviglio della Veneria viene interpellato ma si rifiuta di togliere i cecchini, sostenendo di voler impedire la cattura di nuovi ostaggi. (…)  Mentre si svolgeva il tentativo di mediazione dei tre giornalisti è intervenuto un fatto molto importante: alle 10.50 sono entrati in carcere il sindaco di Alessandria, il vicesindaco, un onorevole, un senatore,  un assessore regionale e due assessori comunali. (…) Alle 11.20 vengono diffusi tre comunicati sottoscritti dalla Giunta Comunale. (…) I comunicati riguardano: le condoglianze della giunta per la morte del medico, la decisone di sospendere i comizi elettorali  di chiusura della campagna per il Referemdum; il terzo, il più importante, riporta il testo di un telegramma: “Al Presidente del Consiglio dei Ministri On. Mariano Rumor, Roma. A nome città tutta esprimiamo massimo sdegno per azione criminale banditi che hanno causato morte di un innocente. Esprimiamo vivissime preoccupazioni città per la salvaguardia della vita di altri 16 innocenti ostaggi. Chiediamo peraltro intervento che avendo a cuore incolumità di innocenti cittadini, proprio per la saggezza delle decisioni esalti la capacità dello Stato democratico di tutelare se stesso senza provocare ulteriori inutili vittime, consapevoli che la salvezza degli ostaggi non sarà interpretata come debolezza dello Stato democratico. La Giunta Municipale e i Gruppi Consiliari Democratici del Comune di Alessandria. 10.05.1974.” (…)” Allora”, dice Reviglio, “il sindaco mi risulta abbia telefonato a Roma, alla presidenza del consiglio e al ministro della giustizia. Sono stato chiamato al telefono dal sottosegretario Sarti, al quale ho subito detto ‘ sia ben chiaro che qui chi decide sono io, se ha da darmi dei consigli li ascolto volentieri, però chi decide sono io’. Gli ho anche detto che stavo per fare un’azione di forza definitiva. Il senatore Sarti mi ha detto che era completamente d’accordo e che facevo benissimo”. Questa esplicita testimonianza dimostra come il potere politico centrale si sia espresso senza mezzi termini a favore della soluzione di forza; al telegramma, Rumor non ha risposto pubblicamente, ma lo ha fatto per bocca del suo sottosegretario. Il Senatore Sarti, interpellato direttamente dal sindaco, risponde: “Non bisogna perdere il senso dello Stato, se si cede ad Alessandria sarà più difficile resistere ancora”. ( nda). Verso le 14 viene nuovamente tentata la via delle trattative. Su sollecitazione dello stesso Concu va a parlamentare don Maurilio Guasco, della stessa comunità religiosa di uno degli ostaggi. È accompagnato da un magistrato locale e dal dottor Montesano fella Criminalpol. (…)  La richiesta dei banditi è ancora quella di essere scortati da due o tre personaggi rappresentativi, come garanti del non intervento, ma non viene più preteso il ritiro o la neutralizzazione completa dei cecchini. Don Maurilio è disposto a far parte della scorta e insieme a lui si offre il consigliere regionale del PCI Luciano Raschio. (…) A questo punto per la prima volta la trattativa risulterebbe sbloccata, infatti si tratta di chiedere a Reviglio non la garanzia sul ritiro dei cecchini, ma la possibilità di fare da scorta, da testimoni durante il tragitto fino al pulmino. (…) Il disinteresse verso la trattativa del Procuratore Generale a questo punto è ormai completo specialmente dopo l’avallo di Roma. Così Don Guasco e Raschio non vengono neppure ammessi alla sua presenza per poter riferire dell’esito dei due colloqui. Intanto avviene un altro incontro con i tre detenuti.  È la volta della dottoressa Emma Baldini, assistente sociale di Torino, collega della Giarola. (…) La Baldini si qualifica di Lotta continua, propone al Concu di essere scambiata come ostaggio con la Giarola, ma è quest’ultima a rifiutare per prima: “Perché solo io ? O tutti o nessuno” ribatte,  D’altronde questo scambio non sarebbe permesso dagli agenti che la trattengono per un braccio e la controllano, alla presenza del direttore e dell’ispettore carcerario. Il colloquio avviene in modo affrettato e non ha nessun seguito perché subentra il divieto delle autorità. (…)  All’interno dello stanzino i banditi hanno lavorato alacremente per prepararsi ad uscire con tutti gli ostaggi; hanno messo tutta la cura possibile per neutralizzare, con accorgimenti vari, l’intervento dei tiratori scelti. (…)  Si scambiano d’abito con gli ostaggi, per cui il Concu, ad esempio, indossa la divisa di un agente di custodia e viceversa. Inoltre, utilizzando le lenzuola costruiscono una specie di baldacchino. Per uscire, ostaggi e banditi lo porteranno sul capo, nascondendosi alla mira dei cecchini. Infine gli ostaggi verranno legati, per impedire sbandamenti, e divisi in tre gruppi. (…)  Dall’esterno, invece, le trattative vengono viste sotto una luce diversa:  la gente che si assiepa intorno al carcere ed i cronisti assistono ai preparativi per la fuga, che, procedono in modo quasi teatrale, a testimoniare la buona volontà delle autorità, disponibili a permettere l’evasione. Questa messinscena raggiunge momenti di alto verismo verso le 13:  la piazza è stata sgomberata, sono rimasti solo i cecchini, i fotografi e i giornalisti; le  portiere delle ambulanze vengono spalancate, il pulmino prima entra poi esce dal cortile della lavanderia; i semafori verso Spinetta funzionano ad intermittenza, gli agenti di scorta sono pronti, c’è molta agitazione: l’uscita del banditi è attesa da un momento all’altro. (…) Alle 17 ha inizio l’assalto conclusivo. Il Procuratore generale Reviglio della Veneria ha dato l’ordine al generale dei Carabinieri Dalla Chiesa, suo braccio destro e comandante in campo. (…) L’attacco, come il giorno precedente,  parte simultaneo dall’interno e dall’esterno ed inizia con il lancio dei candelotti lacrimogeni. (…) “ Ad un certo punto eravamo tutti pronti per uscire. Noi si aveva le mani legate con bende e un lenzuolo sopra il capo per confonderci con i tre banditi. Ad un tratto abbiano sentito i colpi dei lacrimogeni e i primi spari”, dice uno degli insegnanti. Da questo momento la reazione degli ostaggi è istintiva e di sopravvivenza. Tutti si gettano a terra per cercare riparo, sotto i lavandini o all’interno dei gabinetti: sono terrorizzati e accecati. Solo due di loro in un attimo di tregua riescono a trovare la via di fuga. (…) Gli altri ostaggi restano tutto il tempo accovacciati o sdraiati per terra, senza poter fare nulla. Qui due di loro, due agenti di custodia vengono uccisi e un altro, un insegnante, ferito gravemente ad una gamba. (…) Levrero è l’unico dei tre banditi a salvarsi, perché resta relativamente lucido e segue il comportamento degli ostaggi, cercando riparo e mescolandosi tra loro. Egli entra ed esce da uno dei  gabinetti, poi si getta a terra, si ‘arrende’ ad uno degli ostaggi, una guardia carceraria e infine si finge morto in attesa che tutto sia finito. L’assistente sociale Giarola viene trascinata via e uccisa poi in uno dei gabinetti con un colpo alla testa. (…) Sulla meccanica dell’uccisione della Giarola non ci sono testimonianze attendibili, in quanto sia i due banditi che l’assistente sociale sono morti e l’unico a dichiararsi testimone oculare è l’onnipresente detenuto comune C.M. (che ha chiesto la grazia allegando la sua testimonianza su questi fatti). Egli afferma di aver seguito il Concu e la Giarola dentro il gabinetto per rifugiarsi. Sarebbe quindi entrato il Di Bona, che aveva già ucciso le due guardie e ferito l’insegnante. Egli strappa la Giarola dalle mani di Concu e la uccide sparandole un colpo alla nuca. A questo punto il Concu reagisce, sparando sul Di Bona,  che però lo precede suicidandosi. Al Concu non resta che lanciarsi disperatamente verso l’uscita, dove lo attendono i mitra dei Carabinieri. Questa versione è tutto sommato attendibile, anche se lo stesso non si può dire di un testimone  che,  per rifugiarsi, segue il ‘ferocissimo’ Concu con la pistola in pugno.  Quello su cui i testimoni concordano è la non responsabilità diretta nell’uccisione della Giarola degli agenti di custodia. Anzi, essi tendono a porre l’attenzione sul fatto che egli non ha mai sparato, che era impacciato con la pistola  e che questa non funzionava.  Egli,  quando esce dallo stanzino non viene subito riconosciuto anche perché è vestito da guardia carceraria. La versione dei Carabinieri è che si è lanciato sparando contro di loro, ma con che cosa se la sua pistola ha continuato a fare cilecca? Un’altra versione, in definitiva più attendibile, è che egli ha gridato per farsi riconoscere e per arrendersi. In ogni caso, appena identificato, viene colpito con una raffica di mitra e colpi di pistola in più parti del corpo. In quanto tempo si svolge tutto questo?  Non di certo in venti minuti o mezz’ora  come è stato detto,  ma in pochi, pochissimi minuti. Tutto si svolge in modo caotico, ma con rapidità,  all’interno dello stanzino.  I movimenti degli ostaggi e dei tre detenuti sono quasi simultanei: in conclusione non più di tre minuti. (…) Immediatamente dopo la strage le autorità rilasciano queste due versioni ufficiali.

Il generale dei Carabinieri Dalla Chiesa: “La conclusione che ha portato delle  vittime tra gli stessi ostaggi, e per le quali esprimiamo ogni rammarico, si è delineata pressochè improvvisata intorno alle 17 di ieri. Dalle 5.30 di venerdì erano riprese le trattative che i tre malviventi avevano impostato sulla richiesta di un pulmino che li portasse all’esterno con tutti gli ostaggi e che doveva essere ubicato nell’area della lavanderia e preceduto da due guardie; richiesta che si era andata via via appesantendo con la pretesa che il corteo di oltre venti persone fosse preceduto nel carcere e fino al pulmino dapprima da tre giornalisti, poi da alcuni magistrati e funzionari di P.S. e, infine, da un sacerdote e da un consigliere regionale offertisi volontariamente: data la pericolosità dei banditi era da prevedere che ne sarebbero diventati gli ostaggi più preziosi e nessuna garanzia poteva essere prevista per la loro incolumità. È a questo punto che si è avuta la netta sensazione che i banditi stessero attuando ritorsioni nei confronti degli ostaggi, quando si sono percepiti all’interno, nell’unica stanza dove erano asserragliati, uno o due colpi di pistola ed è stato allora che il Procuratore Generale di Torino Reviglio della Veneria – come egli ha dichiarato a tutti i giornalisti – ha ordinato ai miei uomini di irrompere nel locale con l’ausilio dei lacrimogeni. I folli hanno ancora sparato sugli ostaggi più vicini e, immediatamente dopo, contro i carabinieri che solo perché muniti di giubbotto protettivo hanno potuto salvarsi e reagire con le armi in dotazione. In ordine alla tempestività dell’intervento – al quale hanno partecipato  15 volontari compresi quattro ufficiali dei carabinieri, 6/7 agenti di custodia al comando di un ufficiale del corpo e alcuni elementi della PS –  si riferisce del rinvenimento del cadavere della povera assistente sociale, orrendamente sfregiato da un profondo taglio al collo e già quasi fredda”.
Il Procuratore Generale di Torino Reviglio della Veneria: “Era una grossa gatta da pelare. Non si poteva ammettere che lo Stato venisse ancora una volta calpestato. Volevo dare un esempio e, dall’altra parte, c’erano 17 ostaggi da salvare. Era una tremenda responsabilità.  In nessuna maniera i banditi avrebbero avuto scampo. Il piano di attacco era stato concordato con abilità. Purtroppo abbiamo avuto qualche perdita, ne avremmo avuto di più se non fossimo intervenuti. I banditi volevano proteggersi in fuga con altri ostaggi. Chiedevano un magistrato, un prete, oppure tre giornalisti. Abbiamo rifiutato perché avrebbe voluto dire mettere in pericolo altre vite. Quando stava per scadere l’ultimatum abbiamo attaccato.  Gli agenti hanno trovato la signora Giarola morta, con la gola squarciata. Era già fredda, trucidata malvagiamente prima che noi intervenissimo. Non si poteva più aspettare. La nostra è stata un’azione meravigliosa, condotta in modo magistrale”.
 

Appendice 2

 “(…) Ad Alessandria, carcere modello, dove tutti i detenuti lavorano per cifre ridicole, “appaltati” da industrie esterne, si presenta il pretesto favorevole per una strage preventiva. Come dichiareranno alcuni testimoni diretti, poi costretti a ritrattare,  nel carcere da un po’ correva voce di una bella evasione. La figura di maggior prestigio all’interno del gruppo era Concu. Temperamento di capo, preparazione politica e culturale di buon livello, il giovane sardo, “educato” nelle patrie galere aveva forse le caratteristiche  adatte per capeggiare un’evasione. Tuttavia gli mancavano le armi e le armi arrivarono  quando al gruppo si aggregò il Levrero.  Il fatto che le ispezioni serali in ogni cella e la “sorveglianza speciale “ che gravava sul Concu, capo di molte rivolte, non abbaino stanato le armi, significa che la direzione del carcere, o qualcuno più in alto, volevano la fuga. Anche il fatto che Di Bona e Levrero si qualificassero per dei fascisti, dopo l’inizio dell’azione, lascia supporre che la loro presenza nel gruppo fosse stata appoggiata da interessi politici precisi. Tutti questi interrogativi divengo indizi consistenti allorché si segue lo svolgersi dei fatti che hanno portato alla strage, attraverso la diretta testimonianza di alcuni superstiti della vicenda. Non facciamo, per ovvi motivi, il nome di chi ha rilasciato queste note. Oltretutto non ci sarebbe uno solo, oggi, disposto a sottoscriverle, perché con minacce più o meno larvate, la verità è stata sepolta sotto le menzogne di regime. Ci preme, tuttavia, senza voler scavare nella feccia, evidenziare il reale svolgimento dei sanguinosi fatti.
L’atmosfera fra gli ostaggi. “Tutti, ostaggi e detenuti, erano vicini, sul fondo di una stanza, quella in cui si erano barricati, tranne il medico e il professor Campi che erano in piedi vicino ad una finestra; il medico stava preparando dei panini e Campi mangiava. L’atmosfera era tranquilla perché pensavano che, dato l’elevato numero degli ostaggi, la trattativa sarebbe stata breve e positiva; i detenuti scherzavano e non erano per nulla agitati, anzi si preoccupavano di trattare bene gli ostaggi, in particolare l’unica donna”.
L’attacco proditorio. Tutti si attendevano, dunque, una soluzione rapida e pacifica. Nulla faceva prevedere il precipitare degli avvenimenti. “Improvvisamente i primi colpi, il medico cade a terra immobile, Campi è gravemente ferito. I Carabinieri non riescono ad entrare perché probabilmente sbagliano porta e così non ottengono più la sorpresa quando arrivano a quella giusta.  Per quanto riguarda i primi colpi, quelli che hanno ucciso i primi due ostaggi, probabilmente possono essere stati sparati dai cecchini che erano appostati sul palazzo di fronte; infatti gli unici due colpiti erano proprio accanto alle finestre ed erano gli unici in quella posizione”.
La ritirata. Ostaggi e detenuti sperano ancora. In fondo non sono stati loro a sparare, anzi sembra che la pistola a tamburo di Concu sia solo di “figura”. Chi gliel’ha fornita gli ha consegnato volutamente un catenaccio. “Dopo l’attacco sono tutti ammassati nella parte terminale della stanza, adibita a gabinetto,  e sono tutti molto spaventati. L’assistente sociale è la più coraggiosa e continua a discutere con i detenuti, ma questi sono sicuri di farcela,  affermando di avere appoggi e garanzie precise di persone in su e non cedono”. Il fatto che fino all’ultimo momento i detenuti sperassero aggrava i sospetti sulla “evasione” orchestrata in alto loco.  Erano forse le vittime designate? Il tragico epilogo fa ritenere di sì.
La trattativa svenduta. Forse i detenuti e anche gli ostaggi cominciano a capire che un piano mostruoso li vuole stritolare ad ogni costo. “Allora chiedono un pulmino  e dei garanti (molti si presentano alle autorità come volontari per questa funzione), ma man mano che passa il tempo svendono la trattativa pur di uscire dal carcere, alla fine si accontentano di un garante che li accompagni sul pulmino, ma neppure a queste condizioni sembra possibile concludere.
L’ordine omicida. Forse molti, anche fuori dalle mura dell’antico mastio, sentono che dentro, nella stanzetta dei gabinetti, molte vite umane stanno per essere vittime di un’esecuzione sommaria, sacrificate ad una mostruosa “ragion di Stato”.  Per questo civili e spettatori si offrono come ostaggi. Sperano con ciò di far recedere Carabinieri e magistrati dai loro ordini mostruosi.
“Il sostituto di Alessandria, Parola, viene a controllare le disposizioni per la fuga. Dice che ci sono speranze, ma piange. All’interno il nervosismo cresce. Concu dice: “Abbiamo sbagliato tutto”. Stavano per uscire senza garanti, rischiando tutto”.
Il massacro.  Tutto era pronto: tiratori scelti venuti da Torino, cani poliziotto, carabinieri, una selva di militari in borghese. Il P.G. Carlo Reviglio Della Veneria ha assunto la responsabilità giuridica delle operazioni. Chi è Della Veneria lo sappiamo tutti, ma ora alla sua già lunga carriera di reazionario irriducibile si aggiunge anche questa macchia di sangue che gli è rimasta sulla toga. Capo militare delle azioni è invece il generale dei CC Dalla Chiesa, talmente reazionario, ottuso e codino, da essere considerato ammuffito persino nell’Arma stessa. “I carabinieri passano di novo all’attacco. Il tutto avviene in una confusione indescrivibile, un barelliere che sta portando via un ferito (inconfondibile con camice e berretto bianco) scampa per miracolo ad una raffica. È un’orgia di violenza. Concu ormai ferito, è immobilizzato, viene finito con due scariche di pistola. Di Bona è fulminato, mentre Levrero stranamente esce illeso; viene anzi difeso da un maggiore dei CC e, incredibile, solo all’ospedale gli daranno un pugno sul naso perché non risultasse illeso”.
L’interrogativo angoscioso. Il bilancio di pochi minuti di fuoco è truculento: 6 morti. “Tutti gli ostaggi superstiti affermano che il massacro è stato dei CC, alcuni gridano “assassini” al loro indirizzo, nessuno crede che i detenuti abbiano potuto uccidere l’assistente sociale con cui erano in ottimi rapporti, lasciando incolumi due graduati delle guardie conosciuti  ed odiati come carogne da loro e dall’intero carcere: c’è poi una terribile coincidenza: tutti i morti erano in buoni rapporti con i detenuti, i superstiti, tranne un paio, no”. Lo Stato di diritto ha stravinto. La sua ombra sinistra si proietta minacciosa sul referendum e sul dopo referendum. Da questo momento l’esemplarità dell’esecuzione di Alessandria contro il “crimine”, i “criminali” e qualsiasi devianza torreggia mostruosa a “salvaguardia della democrazia” e a “monito” per i suoi “attentatori di ogni specie”.

Vittorio Rapetti e Antonio Visconti

La Resistenza dei militari: ricerca storica e memorie personali

 

 

Rapetti e Visconti ricostruiscono sinteticamente l’evoluzione della memoria storica riferita agli internati militari (Imi). Il loro rifiuto a giurare l’adesione alla Rsi e a collaborare con l’esercito tedesco fa parte della storia resistenziale, ma il loro ruolo è stato disconosciuto dallo stesso Esercito italiano e per molti anni la maggior parte dei protagonisti hanno cercato di dimenticare l’esperienza dei lager. Soltanto in tempi relativamente recenti, anche attraverso la pubblicazione di scritti autobiografici e la raccolta di documenti, si è posta attenzione al valore umano e politico di quelle scelte. La riscoperta di questa forma di Resistenza si collega con una più attenta valutazione di episodi quali quello di Cefalonia e in generale del comportamento tenuto dai soldati italiani all’indomani dell’8 settembre. Negli allegati (che contengono preziosi documenti originali, lettere autografe, cartoline, ecc.), viene ricostruita la vicenda personale di due deportati, Carlo Visconti di Spigno e Giovanni Chiodi di Vinchio, per illustrare come singoli percorsi, ben presenti nella memoria famigliare, possano rivelarsi un utilissimo strumento per la costruzione di senso storico in particolare in ambito didattico.