Katherine: Oh Alex, non voglio perderti.
Alex: Katherine, Katherine, che cos’è che non va? Perché ci torturiamo così?
K.: Quando mi dici delle cose che mi feriscono cerco di fare altrettanto con te, ma non posso farlo, perché ti amo.
A.: Forse siamo troppo orgogliosi...
K.: Dimmi che mi ami!
A.: Se te lo dico, giuri di non approfittarne?
K.: Sì, ma dimmelo, voglio sentirtelo dire!
A.: Te lo dico: ti amo!

 

   
 
     
         

INTRODUZIONE

di Adriano Aprà

Rossellini è entrato prepotentemente nella mia vita di studioso di cinema tanti anni fa, quando promossi, per un cineclub al quale collaboravo, una retrospettiva assai ampia, che partiva da La nave bianca e si concludeva con La paura. Era la stagione 1959-1960, quando a Roma India Matri Bhumi, presentato a Cannes nel maggio 1959, non era ancora uscito. Avevo spinto i responsabili del cineclub a questa iniziativa quasi solo per poter vedere Viaggio in Italia, un film sparito dalla circolazione, perfino da quella delle terze visioni, allora fonte di scoperte incessanti per un giovane cinèfilo come me. La curiosità era stata accesa dalla “rivelazione” – è il caso di dire – della lista dei migliori film della storia del cinema stilata da una rivista che avevo scoperto pochi mesi prima, i «Cahiers du Cinéma» (n. 90, Natale 1958), e che avevo cominciato a leggere voracemente, procurandomi come potevo anche i numeri precedenti. In quella lista, al terzo posto, veniva citato Journey to Italy di Roberto Rossellini (in inglese, perché la versione originale del film è parlata in inglese). Di questo film non conoscevo neppure l’esistenza, né mi servì molto consultare subito la rivista che compravo da un paio di anni ogni 15 giorni, «Cinema Nuovo»: Viaggio in Italia non era stato neppure recensito nella canonica rubrica “Il mestiere del critico” (scoprii solo più tardi la Difesa di Rossellini, il saggio in forma di lettera indirizzata da André Bazin a Guido Aristarco, con una superficiale risposta affidata ad Aldo Paladini). La cosa mi sembrava misteriosa, come misteriose erano del resto le valutazioni dei film che dava la rivista francese rispetto ai canoni a cui ero abituato da quella italiana, e che si riflettevano nelle programmazioni dei cineclub che frequentavo assiduamente. Mi convinsi piano piano, leggendo e rincorrendo nelle benemerite terze visioni ciò che era ancora possibile ripescare, che il metodo di analisi del cinema imperante in Italia era un ostacolo, non un aiuto alla comprensione dei film, non solo di quelli di Rossellini.
Da allora questo autore non ha cessato di accompagnarmi nel mio personale viaggio, e soprattutto non ha cessato di pormi domande, fornendomi risposte momentanee che rapidamente si trasformavano in ulteriori interrogativi, come se mi trovassi di fronte a un universo inesauribile, che io tentavo – senza logicamente riuscirci – di sistematizzare. Negli anni ho rivisto periodicamente tutti i suoi film, ogni volta con occhi nuovi, cogliendone aspetti che prima erano passati inosservati, ribaltando giudizi che mi erano sembrati definitivi.
Le occasioni per scriverne non sono state molte all’inizio. Rileggo con imbarazzo un saggio complessivo pubblicato in una rivista spagnola, «Film Ideal» (Roberto Rossellini, n. 77-78, 1-15 agosto 1961), su invito del direttore Juan Cobos e su sollecitazione, credo, di José Luis Guarner, che avevo conosciuto a Roma e che condivideva molti dei miei entusiasmi. Scrivevo allora su «Filmcritica», ma il “territorio Rossellini” era riservato al direttore, Edoardo Bruno, che del resto avevo incontrato proprio perché ne era un “difensore”. Non per questo Rossellini ha avuto minore peso nelle mie riflessioni sul cinema. Su «Filmcritica» pubblicai comunque una lunga intervista, realizzata con Maurizio Ponzi (n. 156-157, aprile-maggio 1965) e sollecitata dalla visione de L’età del ferro (in saletta privata al vecchio Istituto luce), nella quale devo ammettere che forzammo Rossellini a rispondere a domande sui suoi “vecchi” film, mentre lui preferiva decisamente parlarci del nuovo percorso a cui aveva dato inizio con quell’opera televisiva così anomala.
La conoscenza dell’uomo, avvenuta in quel pomeriggio nella sua villa di vicolo delle Sette Chiese 8/b, ha aggiunto un nuovo tassello, essenziale, a quella del suo cinema. Il viaggio si è così aperto a nuove dimensioni. E trovo preziose le altre occasioni che ho avuto di incontrarlo. Pochi mesi dopo, nell’agosto del 1965, feci con lui un viaggio a Montréal, dove era stato invitato a presiedere la giuria del primo Festival grazie alla mediazione di Gian Vittorio Baldi, con cui lavoravo, che aveva da alcuni anni rapporti professionali con l’Office National du Film di tale città. In quella mia prima visita oltre oceano stabilii molti contatti con i cineasti del direct cinema del Québec, perché con Baldi progettavamo una rivista internazionale sul documentario, che poi non andò in porto. Rossellini invece era alla ricerca di partner – anche in questo caso senza risultati, almeno immediati – per quello che era già il suo grande progetto di enciclopedia storica. Continuando il mio viaggio nel mondo del nuovo documentarismo, rividi Rossellini qualche giorno dopo a New York. In queste occasioni ebbi modo, io così timido, di trovarmi di fronte a un uomo che aveva la virtù di liberarsi da qualsiasi aureola, di far sentire a proprio agio ogni suo interlocutore, di sollecitare lo scambio. Il dialogo umano con Rossellini è proseguito negli anni. Ricordo con immenso piacere altri due viaggi: uno in auto, assieme a Baldi, quando, dopo una chiacchierata a casa sua (doveva essere il 1966, quando stilò il Manifesto poi pubblicato sui «Cahiers»), ci convinse ad accompagnarlo fino a Napoli, da dove, dopo una cena da “Dante e Beatrice”, sarebbe proseguito verso la costa amalfitana per raggiungere la famiglia; un altro nel 1969, sempre in auto, sempre da casa sua, a Sperlonga, dove girava sulla spiaggia una delle ultime scene di Atti degli Apostoli (è stata l’unica occasione in cui l’ho visto al lavoro, alle prese col “trucco dello specchio” e con la “leva da tranviere” con la quale comandava a distanza lo zoom). Ricordo ancora quando invitò a cena, a Trastevere, Bernardo Bertolucci e me per proporci di dirigere – mi sembra incredibile, almeno per quanto mi riguarda – un episodio ciascuno della serie che sarebbe diventata La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (io mi candidai per quello sugli uomini primitivi…). Non sono mancate altre occasioni di incontri più o meno fortuiti: una volta, quando era Presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, tentai di farlo parlare, assieme a Ponzi, dei suoi gusti cinematografici – tanto per non smentire la nostra matrice cinèfila, così poco rosselliniana –, e ne sortì, com’era logico, un’intervista assai insoddisfacente, che non era il caso di pubblicare sulla nuova rivista che dirigevo, «Cinema & Film», ma che non mancava comunque di risposte sorprendenti (uno dei film che più lo avevano colpito era Window Water Baby Moving di Stan Brakhage); poi a Pisa – la città dei suoi antenati, come ci rivelò –, quando condivise con i ragazzi del Dibattito su Rossellini, nel clima politicamente assai caldo del maggio 1969, la proiezione di Europa ’51; un’altra volta, dopo la presentazione di Anno uno, e le polemiche e le stroncature che accolsero quel film, sentii il bisogno di andarlo a trovare nel residence alla collina Fleming, dove abitava in quel periodo con Silvia d’Amico, solo per fargli sapere che quel film mi era piaciuto, ma che – osai dirgli – aveva l’unico torto di “arrivare troppo presto”, e che sarebbe stato capito (come aveva detto Godard a proposito di India) forse dopo vent’anni: che sono passati, ma niente mi sembra sia successo nel frattempo… L’ultima volta fu a Cannes, dove lo incrociai rapidamente in occasione del convegno su “L’impegno sociale ed economico del cinema” da lui voluto, organizzato e presieduto. Pochi giorni dopo, la morte improvvisa: il funerale, la folla, lo stupore, il rimpianto per le occasioni perdute, per tutto ciò che avrei voluto chiedergli…
L’uomo Rossellini, a partire da questi incontri, mi ha da allora sempre più interessato, e ho fatto di tutto per saperne di più, fino a concepire nel 1986 un film biografico. Per prepararlo ho intervistato, assieme a Marco Melani e Patrizia Pistagnesi, con i quali scrivevo la sceneggiatura, moltissimi suoi collaboratori; e ogni volta ne saltava fuori un aspetto inedito, una sfaccettatura che rendeva sempre più complessa – inesauribile come la sua opera – una personalità che per altri versi era essenzialmente semplice. Quel film non si è fatto, ma ne ho realizzato un altro nel 1992, Rossellini visto da Rossellini: un film-saggio che è forse la cosa migliore che sono riuscito a “scrivere” su di lui.
I testi che raccolgo adesso sono, ai miei occhi, solo un abbozzo di ciò che coltivo in me da tanto tempo, forse da troppo tempo. Il libro che mi propongo sempre di scrivere viene rimandato ogni volta di nuovo forse perché non voglio “liberarmi” da Rossellini, perché sento, in ultima analisi, di saperne – nonostante la lunga, anche ossessiva, frequentazione – ancora troppo poco, o perché non voglio privarmi del piacere di scoprire in lui e nella sua opera sempre qualcosa che prima ignoravo; o forse perché lo sento così produttivo, per me e spero per altri, che la forma canonica della monografia mi sembra la meno adatta a far proliferare il suo insegnamento, che rifugge dalle celebrazioni e dalle monumentalizzazioni, e richiede semmai di emergere in un rapporto intimo con chi abbia la pazienza di accoglierlo.

Ho suddiviso i vari testi in “blocchi”, evidenziati solo da spazi nel sommario. Il primo testo, Cuori, stelle, pietre, funge da premessa sintetica; l’ultimo, Promemoria per Rossellini, da indice riassuntivo di punti che propongo, anche a me stesso, per un approfondimento. Il secondo blocco unisce insieme testi che, nel loro insieme – anche se concepiti in tempi diversi e con diversi approcci –, possono dare un’idea complessiva dell’attività cinetelevisiva di Rossellini. Come pausa fra questo e il successivo blocco, nel quale ho messo insieme analisi di singole opere (purtroppo non di tutte) o esempi di percorsi trasversali (Rossellini episodico, Rossellini e gli animali), ho inserito estratti dai miei interventi nel Dibattito su Rossellini, come testimonianza di un’esperienza personale che ha mutato profondamente il mio modo di vedere questo autore. I tre saggi dell’ultimo blocco li ho separati dal resto perché investono argomenti diversi da quelli dei film (l’attività produttiva, l’influenza sul nuovo cinema, le riflessioni scritte e orali di Rossellini intorno alla propria attività).
Le illustrazioni – di vita e di set – sono intese come un percorso autonomo rispetto ai testi.
Nel ripubblicare i diversi saggi, li ho lasciati così come li avevo scritti, salvo le necessarie uniformazioni redazionali, qualche minima correzione di forma e alcuni tagli, evidenziati da tre puntini fra parentesi quadre, per evitare eccessive ripetizioni. Ho tuttavia ritenuto opportuno rielaborare il Dibattito su Rossellini, la cui trascrizione originale, che ne ricalca un po’ troppo il carattere di intervento orale improvvisato, sarebbe risultata squilibrata rispetto all’insieme degli altri testi. Ho citato i titoli dei film di Rossellini in italiano, anche quando il riferimento è alla versione originale in lingua diversa, e ho eliminato ogni datazione, per la quale rimando alla succinta filmografia che chiude il volume. Precisazioni o aggiunte, ridotte comunque all’essenziale, sono evidenziate da parentesi quadre.