ROGER TAILLEUR NEL SUO TEMPO

di Michel Ciment, Louis Seguin

Il percorso critico di Roger Tailleur è relativamente breve. Si estende su vent’anni appena, dai primi anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, ma stupisce per la sua qualità. La maturità dei suoi testi è immediata. Nulla in lui che porti tracce di esitazioni, di eccessi, di goffaggine, di rifiuti o compiacenze umorali. Quella lucidità, quella pertinenza sono tanto più notevoli perché ha cominciato a scrivere e poi ha deciso di abbandonare la critica in epoche di transizione che non predisponevano alla chiarezza, ma invitavano piuttosto alla veemenza e alla verticalità del partito preso.
Nel 1950, quando manda un articolo su Nodo alla gola a La Nouvelle République, poi nel 1952, quando con degli amici fonda e anima i sette numeri ciclostilati di Séquences, e quasi nello stesso tempo quando, su invito di Bernard Chardère, comincia a collaborare al giovane Positif, le carte della critica, in Francia, sono lontane dall’essere distribuite. Gli scritti di Roger Tailleur mal si conciliano con la vulgata contemporanea per cui tutto ciò che di notevole è stato scritto sul cinema in Francia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale è passato per la sola strada maestra che va dalla Cinémathèque alla Nouvelle Vague, via Cahiers du Cinéma. La situazione era nello stesso tempo più ricca e più complessa. La fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta hanno visto sbocciare un bouquet di esperienze, fitto di incroci di paesi e di film, ma anche di sale e di scritti.
Roger Tailleur ha dodici anni quando la guerra scoppia. Ha già frequentato le sale di Bordeaux e della sua regione, molte delle quali appartenevano all’autore più completo (sceneggiatore, regista, produttore, proprietario di studi e di sale) del cinema francese, quale fu Emile Couzinet. Per fortuna, il cineasta di Trois marins dans un couvent non programmava solo i suoi film. È lì che Roger Tailleur ha scoperto, incantato, alla vigilia della guerra e soprattutto nel dopoguerra, il cinema americano. Nel 1952, ospite al sanatorio per studenti di Saint-Hilaire-du-Touvet, diventa responsabile del cineclub che era affiliato alla Fédération Française des Cinéclubs, movimento allora al massimo della sua diffusione. Al suo arrivo a Parigi, fine 1953, frequenta, naturalmente, la leggendaria sala di Avenue de Messine, poi il Musée Pédagogique e, dieci anni dopo, il Palais de Chaillot. Bazzicò anche le sale che, da Rue Troyon a Avenue de l’Opéra, passando per Rue Duphot, accolsero l’una dopo l’altra un unico cinema d’art e d’essai. Si avventurò anche in posti marginali quali erano Les Agriculteurs, La Pagode, Le Panthéon, lo Studio-Bertrand o lo Studio des Ursulines, ma la sua passione lo portava, innanzitutto, altrove. Non mancò mai a uno spettacolo delle sale che davano in seconda visione, dunque più a buon prezzo, i film americani in versione originale, cioè tanto Le Mac-Mahon quanto Le Napoléon, Le Cinéac Ternes, L’Artistic, Les Reflets, il Cinémonde Opéra o lo Studio-Raspail.
Bisogna aprire una parentesi su due sale che non aprivano le porte solo ai film (principalmente americani, ma anche italiani) in VO ma che, una volta alla settimana, accoglievano dibattiti in cui si ritrovavano i “giovani” critici dell’epoca. Una di esse, il Cardinet, ebbe una vita effimera, ma l’altra ebbe una fortuna ben più lunga. Le Studio-Parnasse era, quando Roger Tailleur cominciò a frequentarlo, animato, ormai da alcuni anni, da un uomo la cui influenza, benché di natura differente, fu almeno pari all’intervento di Henri Langlois.
Al contrario del Maestro della Cinémathèque, Jean-Louis Chéray, il cui nome è oggi ingiustamente dimenticato, non solo costruiva programmi di valore e sorprendenti, ma discuteva a voce con i suoi spettatori. In più, c’era un registro in cui ciascuno poteva esprimere opinioni e porre domande a cui egli rispondeva con attenta regolarità. Soprattutto, organizzava, dopo lo spettacolo del martedì sera, prima di cambiare programma all’indomani, dei dibattiti cui partecipavano e si contrapponevano, da una parte, Robert Benayoun, Albert Bolduc, Jacques Demeure, Gorge Goldfayn, Ado Kyrou, Luois Seguin o Paul-Louis Thirard e, dall’altra, André Bazin, Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Luc Moullet, Jacques Rivette, Eric Rohmer o François Truffaut. La controversia era spesso al calor bianco, persino aggressiva, e le argomentazioni, che si trattasse di Neve rossa, di Sentieri selvaggi, di La regina d’Africa o di Pietà per i giusti, perentorie, definitive. Tailleur ascoltava questi scontri verbali con interesse appassionato e, malgrado la sua timidezza, non disdegnava di intervenire, in generale a fianco del primo gruppo. È stato lì che si sono separate le scuole e sono maturati i giudizi le cui antinomie arricchirono Positif e i Cahiers du Cinéma.
Roger Tailleur aveva molto letto. Ma non di cinema, e in questo campo le sue letture non sempre erano conformi alla doxa cinematografica. Era stato assai più influenzato da certi settimanali che avevano nutrito i suoi sogni che non da periodici che del resto non raggiungevano le librerie bordolesi. Era stato un lettore assiduo non solo degli Ecran français di prima e dopo lo zdanovismo o del cattolicissimo Radio-Cinéma-Télévision (l’antenato del Télérama alla “moda” di oggi), ma anche e soprattutto di Cinémonde e Cinérevue, persino di Film complet e di Mon film. È su quelle pagine che gli piaceva sentir parlare dei film che aveva visto e soprattutto che voleva vedere, delle attrici che amava tout court e degli attori che ammirava. Così non prese conoscenza, se non tardi, alla biblioteca del sanatorio, della seconda serie di La Revue du Cinéma, diretta da Jean-Georges Auriol, degli articoli di Roger Leenhardt o André Bazin su Esprit e delle schede tecniche che pubblicava la rivista dell’UFOLEP: Image et Son. Ancor più a lungo, ignorò Saint-Cinéma-des-Prés, La Gazette du Cinéma e L’Age du Cinéma. L’accademismo dei primi numeri dei Cahiers du Cinéma non lo entusiasmò troppo. È anche vero che era prima dell’arrivo, cui nessun doveva restare indifferente, di Claude, François, Jacques, Jean-Luc e degli altri.
Sul cinema, non aveva letto che pochi libri. Nel 1949, si era comprato la prima edizione dell’Histoire di Georges Sadoul, in cui inverosimili e stalinisti giudizi non lo avevano esaltato. Aveva, per contro, come bibbia un’opera oggi dimenticata - e, bisogna riconoscerlo, obsoleta - ma che ha permesso a tanti di venire a conoscenza o di ritrovare una storia lontana dalle convenzioni. Era stata pubblicata nel 1947 da Colette d’Halluin, ed era l’Histoire du Cinéma Américain di Pierre Artis, discepolo del resto del celebre papa di Montauban, Hugues Panassié. Roger Tailleur conosceva bene anche due saggi pubblicati da André Bonne: Lo schermo demoniaco di Lotte Eisner e il Cinema dell’arte di Nino Frank. Aveva trovato insufficiente la brochure di André Bazin su Orson Welles, ma aveva salutato come era giusto, prefazione dello stesso Bazin compresa, la prima edizione, nel 1953, del Western di Jean-Louis Rieupeyrout. Considerava, poi, con una certa diffidenza le pagine, citate in tutte le buone sacrestie, di Le Cinéma-a-t-il une âme? di Henri Agel. Si trattava senza dubbio di una biblioteca minima, ma era compensata dalla conoscenza diretta e sicura di un gran numero di film e dalla curiosità di una passione insaziabile.
Tutta l’attività critica ebbe Positif come centro. Mai, al contrario di Raymond Borde o di Louis Seguin, si lasciò distrarre dalle Editions de l’Etoile. Eppure era uno dei pochi a essere apprezzato dai suoi avversari. Jean-Luc Godard e François Truffaut amavano quello che lui scriveva e ammiravano l’incisività della sua scrittura. L’ultimo gli propose anche di collaborare a Arts quando lui passò alla regia, e Jacques Doniol Valcroze lo fece entrare a France-Observateur da cui fu cacciato a vantaggio di Michel Cournot quando il settimanale si trasformò in Nouvel Observateur. Fu, come mostra la bibliografia, invitato a collaborare a parecchie altre testate. Ma restava ostinatamente fedele a una rivista dove contava, all’inizio, almeno su un amico, Louis Seguin, e dove se ne fece molti altri.
Questa costanza non comportava un’adesione senza riserve. Fu, per esempio, assai contrario all’articolo del numero 11, “Quelques réalisateurs trop admirés”, in cui si attaccavano alcuni cineasti che amava. La stessa cosa avveniva per la politica. L’ammiratore “democratico” di Franklin D. Roosevelt e di John Kennedy era profondamente liberal e seppe prendersi dei rischi non da poco, ma diffidava delle estreme. Sostenne Henri Langlois ma gli avvenimenti del maggio ’68 sorpresero sgradevolmente un uomo che, proveniente da un ambiente modesto, non aveva avuto la fortuna, malgrado le sue doti e il suo lavoro, di seguire degli studi regolari come i giovani ribelli che, a suo parere, facevano un po’ troppo facilmente tabula rasa della cultura del passato. In questo, la sua posizione non era lontana dalle celebri invettive di Pasolini, verso le quali era ben disposto. Questo disaccordo non ebbe un ruolo da poco nel suo allontanarsi dal cinema e dalla critica. Uno dei suoi ultimi testi polemici (non ne abusava) fu dedicato all’inedito zelo dei Cahiers du Cinéma che, nella loro parentesi maoista, bruciavano il cinema americano con lo stesso ardore con cui l’avevano adorato.
La sua separazione da Positif spiacque, ma nessuno gliene volle. In particolare, gli ultimi arrivati degli anni Sessanta - Michel Ciment, Bernard Cohn, Frédéric Vitoux - di cui aveva incoraggiato gli inizi, gli restarono assai vicini. Roger Tailleur consacrò gli ultimi anni della sua vita ai viaggi, alla pittura antica, alla sua famiglia e agli amici. Faceva ancora qualche incursione nelle sale cinematografiche per confrontare i suoi gusti con quelli della sua rivista preferita. E la malattia se lo portò via.

 

 

 

NOTA DEL CURATORE

di Gianni Volpi

Come dicono Ciment e Seguin nell’introduzione, l’opera critica di Roger Tailleur è tutta concentrata nell’arco di un ventennio scarso, ma le sue dimensioni sono tali da rendere difficile concentrarla in un solo volume. Ci è sembrato perciò utile, per avere un minimo di completezza sul lavoro di un critico di questa rilevanza, dividerne la “produzione” in due volumi. Il primo, questo, è dedicato ai suoi scritti su Positif, che è stato il perno della sua attività critica; il secondo, in uscita nel 2007, comprenderà i saggi lunghi e altri scritti. Degli scritti su Positif sono stati tradotti tutti i testi (diciamo il 95% di essi), tranne le “brevi” della rubrica “de A à Z” e quelle “occasionali” di poche righe su brutti film festivalieri, ma “necessarie” ai rendiconti dai festival che Positif voleva completi. In questa chiave possono essere viste anche certe note assai interne ai problemi e alle polemiche francesi di quegli anni, incomprensibili al lettore (tanto più se italiano, tanto più oggi, a distanza di tanto tempo) senza i testi cui si riferiscono o note e postille su fatti e circostanze e persone. Per quanto riguarda le “brevi”, molte delle osservazioni che contengono sono recuperate in schede più ampie, così è anche per le “note” che corrispondono a quel suo stile così peculiare di scrittura elegantissima eppure di “intervento” continuo, giorno per giorno, attento a tutto quanto capitava ed era pubblicato. Era davvero «uno dei rari critici a leggere i colleghi e a tenere conto, in senso favorevole o contrario, del loro parere». Era parte attiva, e ascoltata, del “dibattito” cinematografico. Su questo terreno relativo al cinema francese, ci è parso più utile pubblicare, accanto alle sue bellissime e ampie analisi di alcuni film-chiave degli anni Sessanta, un vero dibattito sulla Nouvelle Vague in cui tutti i temi relativi al cinema nazionale, dispersi qua e là in schedine più o meno brevi e occasionali, sono ripresi e sistematizzati (e confrontati con la visione degli altri redattori). Non ci è sembrato il caso di sacrificare oltre il lecito a una filologia maniacale, di arida e inutile erudizione che era quanto più odiava Roger Tailleur. Per la stessa ragione, ci è sembrato più utile non dare i testi in semplice ordine cronologico, sul filo di un’occasionalità senza più, ma di organizzarli attorno ad alcuni assi e filoni e solo all’interno di questi seguire la cronologia. Il modello è quello offerto dal bel volume antologico, curato da Michel Ciment e Louis Seguin: Roger Tailleur Viv(r)e le cinéma, Institut Limière/Actes Sud, 1997; ma le scelte sono diverse. Per un motivo semplice: che i testi tra i due libri coincidono solo in parte, diciamo per una metà, l’antologia francese raccogliendo una parte consistente da altri fonti, e il nostro libro aggiungendo decine di testi pubblicati su Positif che là non erano contenuti. Come in ogni suddivisione, c’è qualcosa di arbitrario, ma abbiamo preferito organizzare i testi di Tailleur attorno a filoni sufficientemente ampi, sufficientemente generali, ma in grado di rifletterne “i gusti e gli orientamenti”. Così ci è parso giusto iniziare con l’articolo in morte di Gary Cooper perché univa autobiografia e analisi del proprio rapporto con un mondo, l’America, e la sua capacità unica di lavorare sui miti di cui una grande figura di attore è portatrice. Assieme il saggio su Ford e quello su Hawks sono esemplari di una forma critica, così come quelle su I professionisti e su Detective’s Story sono analisi di strepitoso acume che includono in sé la storia di tutto un genere. Il western, poi, è il suo genere per eccellenza, lui che i generi ha saputo analizzarli come nessun altro nel loro aspetto di lavoro collettivo, nella loro dialettica tra normatività e innovazione. Americana è un lungo viaggio attraverso un vero continente, in cui si può forse ritrovare, scandita dal succedersi dei film, una vera e propria storia dell’evoluzione di un altro genere, il noir, dal Mistero del falco ai figli di Huston e Hammett, agli ultimi un po’ degeneri esemplari. E non va trascurato il suo gusto per la commedia, musicale e washingtoniana essa fosse, di Tashlin o Minnelli si tratti. Francia e Italia, il proprio paese e quello d’elezione (quello in cui sostiene che ora si trovi Roger lo scrittore e amico, e ex critico di Positif, Frédéric Vitoux: Il me semble désormais que Roger est en Italie, Actes Sud, 1986), gli forniscono l’occasione per alcuni lunghi, memorabili saggi su Becker e sulla Varda, su Antonioni e su Bertolucci; gli sguardi insoliti da altrove sono indicativi di un’attenzione al nuovo che negli anni Sessanta nasceva in Europa, e i testi sui film di Fellini, Bergman e Bresson incrociano occasionalmente Grandi Maestri, di cui, com’è pure per Buñuel o Welles o Kazan, ha più a lungo trattato in altre sedi (vedi il secondo volume, in preparazione). Le nostre non vogliono essere altro che ipotesi di lettura di un’opera di straordinaria fecondità e ricchezza al cui interno ognuno può ritagliarsi i propri percorsi privilegiati.
Un’ultima precisazione e un ultimo ringraziamento. L’introduzione a questo libro è stata scritta nel marzo 1997 per l’antologia sopra citata e non è stato neppure necessario, come suggerivano gli autori, adattarla al nostro contesto: era perfetta, era un bel quadro di un’epoca e di un grande critico in essa. Alla stessa fonte si deve la bibliografia completa di Roger Tailleur.
Il ringraziamento va a Michel Ciment, direttore di Positif e critico anche da noi notissimo, senza la cui generosissima e appassionata disponibilità questo omaggio a Roger Tailleur non sarebbe stato possibile.
Importanti sono stati inoltre l’aiuto e la collaborazione in primo luogo, di Paul-Louis Thirard e, in diversi momenti, di Georges Bollon, Goffredo Fofi, Paolo Mereghetti, Lia Furxhi, Alice Volpi, Davide D’Alto, Roberto Lasagna, Saverio Zumbo. (g.v.)

 

La Phorma. Pickpocket di Robert Bresson

di Roger Tailleur

C’è la realtà e c’è l’arte (lo scherzo, terzo concetto, per ora non mi interessa), il mondo e il cinema. Il secondo deve riprodurre il primo, o essere soltanto atto creativo? Ovvero, cavilli senza fine su un problema mal posto. Il cinema deve creare a partire da una riproduzione imposta da quella macchina stupida e magnifica che è la cinepresa. Di questa tappa necessaria che è la “riproduzione” la pittura ha messo tanto tempo a disfarsene; la 7a arte, finché userà la vecchia camera dei fratelli Lumière, anche se sensibilmente migliorata, non potrà mai evitarla. E Robert Bresson meno di altri, visto che non è né cartoonist, né autore radiofonico, né animatore di marionette.
I grandi cineasti sono ammirevoli per il surplus di realtà che la loro opera racchiude: Orson Welles è l’America o Otello più Welles, Eisenstein è Ivan più Eisenstein, Vigo l’Atalante più Vigo. Con Bresson s’instaura il regno del troppo-vuoto, Pickpocket si riduce a qualche tratto del ritratto del ladro.
A tutti gli stadi di ciò che non oso chiamare espressione, il partito preso di mutilazione è notevole. Un solo personaggio, una sola ossessione, una voce fuori campo e dei dialoghi laconici, una fotografia spenta in tinte grigio opaco, qualche nota di musica “classica”, degli attori soffocati. A officiare è Robert Bresson, il Grande Spegnitore. Si va ben oltre il grado zero della scrittura cinematografica cui tendevano più o meno felicemente i Preminger, Mizoguchi, Lang o i Renoir recenti. Siamo al di sotto del punto critico zero. Sartre ricordava la formula usata per Lo straniero di Camus: «È Kafka scritto da Hemingway». Pickpocket è Dostoevskij scritto a tratti dall’autore di Addio alle armi e, più spesso, da un suo discepolo abusivo. Il riferimento non è incongruo e, nel corso del film, quando l’autore non confonde economia e avarizia, né opera spoglia e spettatore deprivato, si trovano alcune short-stories di secca efficacia che lo scrittore yankee non avrebbe sconfessato. Per esempio: Michel, l’eroe, era un istante prima al luna park con i suoi amici. Lo ritroviamo, all’improvviso, a casa sua, i vestiti macchiati, la mano insanguinata. Breve commento: «Avevo corso, ero caduto». D’un tratto, entra l’amico. Dialogo: «Ho avuto così paura… - Paura di cosa? - Paura… -Spiegati!». L’amico non spiega nulla, Michel vede che la sua diffidenza è ingiustificata. Quando l’amico se ne andrà, tirerà fuori dalla tasca un oggetto. Commento: «L’orologio era molto bello». Non sempre il racconto è così felice, così limpido, ma sempre Pickpocket procede come un percorso ad ostacoli in cui le ellissi visive, verbali, temporali e spaziali sono altrettanti fossati da superare. Pickpocket è una sorta di 110 (minuti) ostacoli, e nello stesso tempo un perfetto esercizio di stile, a voler prendere per buona una definizione di stile come arte di saltare le idee, i punti, le parole intermedie. Perché Robert Bresson ha stile; forse non ha altro.
Tutti nel film si affannano ad aprire precipizi sotto i nostri passi. Lo scarto tra ciò che vede o sa l’eroe e ciò che noi vediamo e sappiamo è costante. A volte, siamo noi i primi a essere informati, e quella lettera sotto la porta su cui si arresta la cinepresa, Michel non la scoprirà che l’indomani. Perlopiù, siamo noi a soffrire di ignoranza, bisogna attendere a lungo un controcampo per fare conoscenza con l’interlocutore, afferrare al volo una battuta banale per apprendere ciò che sullo schermo sembrava essere scontato, si spera sempre in una rivelazione tardiva, e non parlo delle innumerevoli domande che i personaggi si pongono invano e dei silenzi così ostinati che perdono ogni valore di silenzio, dando, di contro, alle parole pronunciate un’importanza e una densità usurpate. Questa titillazione di ogni istante, questa piccola vertigine a vuoti continui non sono molto originali, ma Bresson ci gioca con sagacia sperimentata: hanno nome suspense. Il trucco di Bresson è quello di erigere questo procedimento di dettaglio all’insieme dell’opera, di trasformare questa minuta falsa chiave in una grande chiave di volta.
Si dice generalmente che Bresson disconosce le abituali categorie di “spettacolare” e di “drammatico”. Niente di più falso. Come tutti, questo regista fa ricorso agli effetti che non sono in lui più raffinati e sottili che in altri - il volto rigato di lacrime al funerale, il bacio finale -, sono più rari, ed è tutto. Allo stesso modo, le sequenze puramente documentarie di furto - l’allenamento nel retro del caffè, il biliardino elettrico, poi sul treno e in stazione - affascinano come un momento di Flaherty, che Bresson dice di amare molto. La realtà è infine presente sullo schermo, senza condiscendenze, il film la sfiora appena, la sorvola liricamente come nel balletto chapliniano dei panini. Tutto il resto non è che assenza, vuoto, attesa. Tutto il resto è anima, dunque silenzio.
Come fa Bresson per mostrare quest’anima, far urlare questo silenzio? Semplicemente, mostra meno, e tace di più. La sua maniera di vedere l’uomo, e nel caso usare l’attore, è qui determinante. È in base all’uso dell’attore che bisogna giudicare Bresson, essere a favore o contro. È noto come egli condanni il 99,98% dei film realizzati nel mondo (quasi tutti i film, ad eccezione dei suoi), a suo parere, concepiti, costruiti e interpretati in maniera teatrale, e destinati, tra dieci anni, a essere invisibili, insopportabili. Di fatto, confessiamolo, i direttori d’attori più stimati - Cukor, Welles, Bergman, Kazan - sono uomini di teatro, e la recitazione e le sue tecniche, compresa la nozione stessa di “naturalezza” così cara a Stendhal, evolvono e passano di moda, come i costumi e l’idea stessa di bellezza. Bresson fa dunque una grande scommessa con la posterità, affermando che fra vent’anni solo le sue opere saranno visibili e che le scene che oggi fanno sbuffare il pubblico - Michel esasperato che maltratta la sua biblioteca davanti al commissario in visita - saranno capaci di catturarlo. Con calma ma con fermezza, Robert Bresson, questo folle che si prende per Robert Bresson, rimette in questione il cinema. Bisogna rifiutare lui, o rifiutare tutto il resto del cinema. Io sono troppo interessato al piacere del momento, troppo inadeguato a giudicare e reagire in chiave di eternità, e credo di trovare, tra il 99,98% della produzione cinematografica, abbastanza buone e solide ragioni per rifiutare Bresson.
Non concedo a Pickpocket nessuna indulgenza se non in funzione del resto del cinema: Flaherty, Chaplin, la suspense, di cui sopra, ed ora Henry Fonda di cui gli occhi di Martin Lassalle sembrano evocare lo splendore. Si può anche concedere all’opera bressoniana un’utilità storica, che non la arricchisce intrinsecamente ma, se ben compresa, può essere benefica. Reagendo contro gli abusi, però, Bresson cade nei propri abusi. Grida “Al folle” ai suoi colleghi giocando a essere più folle di loro. Li mette in guardia contro i loro eccessi e i propri, queste affettazioni di semplicità, questo manierismo dell’essere senza maniere.
Ma torniamo ai nostri montoni, ai nostri attori. Sono seduti, prostrati, o in piedi, le braccia penzoloni. Enunciano parole cui non credono, abbassano la testa alla fine della battuta e se ne vanno come anime in pena. Il romanziere di grado zero non scrive più «egli grida», «urla», «implora», ma sempre «egli dice»; Bresson fa lo stesso. Oltre che le parole, c’è lo sguardo, c’è l’espressione, c’è il gesto. Ma lo sguardo è quasi militare, fisso a tre passi, atono ma non atonale (c’era la musica atonale, c’è ora il cinema atono, e certuni vorrebbero stabilire fra le due cose delle corrispondenze!). L’espressione è rigida, uniforme, come dal fotografo quando si attende senza illusioni e senza allegria l’uscita dell’uccellino. Su queste facce intercambiabili, il commento - «Qualcosa illuminò il suo viso», «Credetti di vedere della malizia nei suoi occhi», «Ho creduto di vedere dello scherno sul suo viso» - cerca di ottenere, bene o male, l’effetto che Kulesov chiedeva al montaggio e altri più ingenui esigono dai loro attori. Quanto al gesto, esso è accuratamente trattenuto, è un gesto da inquisizione, e come passato alla ruota. L’uomo di Bresson, ripeto, è un’anima in pena, prigioniera nell’involucro idiota del corpo. L’autore vorrebbe ben far sparire questo corpo, cacciare l’uomo dal cinema come la pittura moderna ha bandito il ritratto, per non conservare che «l’anima e gli oggetti» (così l’autore riassumeva Un condannato a morte è fuggito), cioè, visto che la prima è a rigore invisibile, i secondi: quegli oggetti, dotati qui di una presenza e un risalto poco comuni, come in questo o quel “nuovo romanzo”. Altro segno di disprezzo umano è che in Bresson non si sorride, non si ride mai. Il riso essendo proprio dell’uomo, lascio a voi chiudere il sillogismo. E, poiché fa fine citare Pascal a proposito di Bresson, lo parafraserò un po’: Pickpocket riflette la tristezza del mondo di Dio.
Ecco il risultato di tutte queste privazioni: Bresson scava davanti a ognuno un abisso che ciascuno può riempire di ciò che vuole, la sua bella anima, la sua noia, la sua collera, il suo disprezzo. Ma poiché è impossibile mostrare l’anima senza il corpo, o spiegare il proprio pensiero senza ricorrere al linguaggio, e dunque di fare cinema senza cinema, si lancia lui stesso in questo vuoto, sotto forma di effetti ben sperimentati, bombole di ossigeno che tanto più stordiscono lo spettatore, quanto più esso boccheggiava; come nella storia del folle occupato a sbattere la testa contro il muro che trovava «così belli» i momenti in cui si fermava. Sul suo regno di ciechi obbligati, Robert Bresson può allora esercitare il suo derisorio potere, ma a stento, perché la pellicola vergine è ancora la più carica di spiritualità.
René Char ci aveva avvertiti: «L’essentiel est sans cesse menacé par l’insignifiant. Cycle Bas».

Positif, n. 33, aprile 1960