Incontriamo Liliana Cavani a Roma mentre si prepara per andare a Milano: alla Scala viene ripreso il suo allestimento di Traviata. Quella trionfale Traviata , nata nel 1990, continua dopo 18 anni ad appassionare il pubblico e a fare sempre il tutto esaurito. Fu una produzione memorabile prima di tutto perché rompeva il malefizio che durava da 26 anni (tanto era il tempo dall'ultima Traviata scaligera): nessuno osava misurarsi con l'interpretazione della diva per eccellenza Maria Callas. Riccardo Muti caparbiamente volle e ottenne il massimo su tutti i fronti. Volle e ottenne Liliana Cavani come regista. E la sintonia tra i due fu perfetta.

 

La preparazione di Traviata fu lunga e profonda. Con Riccardo a Ravenna ripassammo al piano tutta l'opera, fu uno studio meticoloso che produsse buoni frutti. L'intento era fare una Traviata che risultasse “moderna”, non nell'ambientazione come ovvio, ma nel muoversi sul palcoscenico come ci si muove nella vita. L'importante, come sempre, è adeguare il gesto alla situazione psicologica di ogni momento scenico.

La rivoluzione attuata da Traviata nella storia del melodramma sta nella dimensione psicologica con tutta la varietà degli atteggiamenti che la vicenda d'amore fra Violetta e Alfredo richiede. Verdi ha creato un'opera nuova, carica di sentimenti intimi e realissimi.

E poi Traviata , che per me è una delle opere più belle mai scritte, è modernissima in sé. Forse è la prima opera “verista” in un momento in cui nessuno sapeva di “verismo”. È passione, tumulto e strazio di sentimenti umanissimi e quotidiani, come il melodramma non aveva mai sentito tanto esplicitamente. Lontanissima da mitologie, epopee eroiche, storie paludate, Traviata racconta un bel fatto di cronaca indicativo di un costume, ed è tutta percorsa da sentimenti privati e intramontabili, quindi immediata. Volevo metterla in scena con tutta la sua verità. Cercavo la naturalezza dei gesti e dei movimenti. Ho sempre detestato i movimenti a scatto delle masse corali: tutti corrono per entrare

in tempo e piantarsi al proprio posto come tante belle statuine, e poi via in fretta come uno squadrone compatto dietro le quinte. Nella festa del primo atto di Traviata il coro va e viene più volte. Io li volevo naturali proprio come i gruppetti di amici che si formano nelle feste: ognuno, rimanendo in scena anche se defilato, aveva un'indicazione precisa di cosa fare, passeggiare discretamente, sussurrare all'orecchio del vicino, dormire sul tavolo perché stanco e ubriaco. Insomma il coro entrava in scena alla spicciolata e faceva qualcosa di piccolo, di naturale, proprio come avrei fatto per una regia di un film.

È incredibile quanto proprio quei gesti piccoli e fluidi riescano ad arrivare al pubblico, pur nella spettacolarità avvolgente e grandiosa delle scene, e tratteggino con finissime annotazioni i personaggi e le relazioni tra loro.È forse questo l'apporto del fare “cinematografico” applicato alla regia dell'opera lirica?

Sono due mestieri diversi. Nel cinema le immagini vengono create dal regista al momento e la drammaturgia è fatta a pezzettini, non c'è continuità di racconto. Tutti sanno che si può cominciare a girare un film dalla fine perché ci possono essere ragioni di opportunità e di tempo (sfrutti un attore quando e finché è disponibile, puoi utilizzare uno spazio solo in certi momenti…). Mentre nell'opera il regista non è il padrone, non inventa come invece inventa il film. La musica è davvero vincolante e trascina inscindibilmente con sé l'azione. Meglio dire che lo sviluppo drammaturgico della vicenda in un'opera lirica è già tutto definito nello spartito. Il regista non deve togliere nè aggiungere nulla, nè cambiare qualcosa. Nel girare un film invece per quanto ci sia una sceneggiatura si possono percepire degli errori cioè qualcosa che manca o che è sbagliato nello sviluppo drammaturgico e quindi, se si è attenti, si può rimediare. Il regista di un film poi sta sempre all'erta perchè può sempre migliorare un dialogo ecc. Il mio lavoro di cineasta, poi, comprende moltissimi aspetti, non ultimo la ricerca dei finanziamenti. Spesso ci vuole più tempo per trovare i produttori che per girare il film. Poi, individuato l'attore che mi va bene, devo aspettare che sia libero e quindi essere pronta a lasciare ogni altro impegno per dedicarmi tutta al film. Mi è successo di non poter completare un progetto per il Teatro di Zurigo proprio perché si accavallava con Il gioco di Ripley.

Come si è avvicinata alla regia d'opera?

Ero a New York al Festival del Cinema nel 1970 assieme a Bernardo Bertolucci. Lui portava Il conformista, io I cannibali .Questo film ebbe un gran successo, tanto è vero che la Paramount voleva distribuirlo, ma pretendeva di cambiare il finale, insomma voleva il “lieto fine”. Io sostenni che non era possibile perché era logico e naturale che i due protagonisti venissero uccisi dalla polizia. Del resto la storia era tratta dall'Antigone di Sofocle. E così non lo comprarono. In sala c'era Giancarlo Menotti che restò colpito dal film e mi dette un appuntamento al Caffè del Plaza. Mi propose di fare un lavoro teatrale.

     
     
Angelo Guglielmi è uno dei maggiori critici letterari italiani, tra i fondatori del Gruppo 63; per molti anni uno dei massimi dirigenti della RAI; Presidente dell'Istituto Luce, e oggi Assessore alla Cultura del Comune di Bologna. Sono andato a trovarlo perché mi raccontasse una sua esperienza come dirigente RAI in occasione della produzione del primo film di Liliana Cavani, Francesco d'Assisi, un momento molto significativo per la RAI in quanto si trattava del primo film prodotto. Siamo nel 1966.

“Si è trattato del primo film prodotto dalla RAI in assoluto“ mi conferma Angelo Guglielmi.
“Era un anniversario relativo alla vita del Santo di Assisi, lo sceneggiatore Tullio Pinelli preparò un copione in due parti per uno sceneggiato da girare in studio; volevamo continuare l'esperienza avviata con lo sceneggiato dedicato a Michelangelo che aveva avuto un buon risultato di ascolto. Avevamo una disponibilità economica di 16 milioni per ognuna delle due puntate. Lessi il copione, tendenzialmente teatrale, e pensai di affidare la regia del film ad un giornalista di inchiesta; in un primo tempo avevo scelto Beppe Lisi che lesse il copione, ma non se ne fece nulla. Mi interessava molto quel testo che seppure “teatrale“ era pieno di richiami all'attualità, Francesco era ed è una figura moderna. Allora pensai a Ugo Gregoretti, ma era molto occupato e distante dalle modalità narrative della fiction. Chiamai Liliana Cavani, regista di documentari che si era già affermata con una Storia del Terzo Reich ed una inchiesta su Stalin. Si disse subito molto interessata, mostrandomi però la volontà di fare un film, di girare cioè in pellicola. Ma avevamo solo 32 milioni. Lei insistette per girare in pellicola. Ero amico di Leo Pescarolo, uomo molto generoso ed avventuroso; lo coinvolsi. Non conosceva la Cavani, accettò nonostante il piccolo budget di 32 milioni. Partimmo con una piccola troupe, forse di otto persone, non ricordo con precisione, sono passati molti anni da allora; c'era Frigoria con la moglie come scenografi, Giuseppe Pinoli, operatore e direttore della fotografia. Il resto del personale lo trovammo in loco.”

Dove giraste il film?

Proprio nei luoghi di Francesco. Era appena uscito il film di Marco Bellocchio, I pugni in tasca, con Lou Castel come protagonista, Liliana Cavani lo volle per il suo Francesco. Ci trasferimmo in Umbria dove, per risparmiare, forse commettemmo delle malefatte; per illuminare la chiesa si rubava energia e per fare passare il cavo della corrente elettrica, rompemmo una vetrata… il film fu girato in una settimana. Ricordo un episodio curioso; arrivò una troupe della RAI sul set per un servizio sul film: era più numerosa della nostra e nonostante i risparmi il film costò di più del finanziamento della RAI… ma Pescarolo ha sempre fatto cinema non per guadagnare, ma per il piacere di farlo, veramente una persona straordinaria.

Quale era esattamente il tuo ruolo nella RAI in quel periodo?

Capo struttura delle trasmissioni speciali.

Avete avuto dei problemi per inserirlo nel circuito e per farlo conoscere al pubblico?

Certamente, il film per quei tempi era molto duro, provocatorio, era un film che proponeva un San Francesco dalla parte dei poveri contro i ricchi… il direttore generale della RAI era Ettore Bernabei che delegava queste scelte a Monsignor Angelicchio che era il sovrintendente ai problemi della comunicazione ed a lui quel film contro i ricchi non dispiaceva… rimaneva l'opposizione del vice-presidente De Feo; ci serviva il suo consenso e gli mandammo in visione solo la metà del film; quando uscì e lo vide interamente si arrabbiò moltissimo…

Come fu accolto il film dalla critica e dal pubblico?

Fu accolto con consenso e stupore, per me rimane il miglior film di Liliana Cavani; un film secco, asciutto, efficace; un film “realista“ che propone San Francesco come uno di noi, vivo ed estremamente reale. Fu una novità assoluta, ricordava Roberto Rossellini.

E la Chiesa come lo accolse?

Grazie a Monsignor Angelicchio, bene.

Hai lavorato ancora con la Cavani?

Sì, per Galileo. Sempre con la collaborazione di Leo Pescarolo e poi anche di Angelo Rizzoli. La RAI investì 80 milioni per il film, ma poi lo rinnegò, non ne volle più sapere, la Chiesa e Ettore Bernabei lo rifiutarono e dissero a Pescarolo: “Questo film è tuo, ci devi restituire i nostri 80 milioni“. Il film non andò mai in onda. Dopo questa vicenda mi spostarono in un altro settore. Quando ritornai con Scarano, volevamo metterlo in onda, ma la pellicola non si trovava più… Voglio raccontarti un episodio che testimonia del clima nella RAI del tempo. Il direttore generale telefonò a Leo Pescarolo chiedendogli di volere vedere il film, ma non doveva dirmi niente; ovviamente fui avvertito, mettemmo dei microfoni sotto le sedie dei vari direttori della sala di proiezione; il film fu visionato nel più assoluto silenzio, alla fine Gennarini disse: “ma Guglielmi lo ha visto… “. Così il film fu scaricato sulle spalle di Leo Pescarolo che non restituì mai gli 80 milioni alla RAI.

     
     

La Regione Emilia-Romagna in collaborazione con il “Premio di critica cinematografica Adelio Ferrero” e Falsopiano ha invitato nella primavera del 2008, studenti laureandi e neo-laureati che avessero conseguito il diploma di laurea o il diploma di laurea specialistica dal gennaio 2005, a partecipare alla selezione per la pubblicazione in questo volume di un saggio sull'opera di Liliana Cavani. Sono stati scelti i saggi I Cannibali di Riccardo Palladino e Liliana Cavani: l'immagine che stride di Rebecca Amanda Snyder, dei quali pubblichiamo di seguito un estratto (le versioni integrali sono riportate nel libro).

     

I Cannibali di Riccardo Palladino

«L'avidità avvezza a vedere morire nel modo più atroce gli altri, con la più strana indifferenza»

P.P. Pasolini

Il “mito in progress”

Se il cinema di Liliana Cavani in generale è alla «ricerca del mito e della mitologia oltre la leggenda e ogni sua copertura» (1) , I cannibali è forse il film che più di tutti appartiene a questa categoria di “mito in progress”. Il film, com'è noto, è una trasposizione dell 'Antigone di Sofocle, che la regista di Carpi, in collaborazione con Italo Moscati e Fabrizio Onofri, rivisita, o meglio «reinventa» (2) , secondo la definizione che ne diede Moravia, seguendo un personale percorso di ristrutturazione e di adattamento che trascende la semplicistica operazione di illustrazione. Non è da escludere che la Cavani, volontariamente o no, si sia ispirata all' Antigone di Anouilh e a quella di Brecht, entrambe rivisitazioni della tragedia greca. Senza entrare nell'aspetto comparativo tra i tre testi ed il film, è utile ricordare come l'Antigone della Cavani sia in parte vicina per intenti a quella brechtiana. La convergenza più evidente tra I cannibali ed il testo del drammaturgo tedesco, sta nell'inasprire il contrasto tra singolo e Stato, tra legge morale e legge dello Stato, tra spazio privato e spazio pubblico e nella mancanza di un qualsiasi tipo di dialettica tra i due emisferi. Inoltre la caratterizzazione dei personaggi, nella Cavani, viene estremizzata a tal punto che le loro posizioni fisse sembrano risentire «della divisione tra buoni e cattivi, [...] [facendo sì che] i protagonisti diventino dei “caratteri”, delle eccezioni che lo spettatore recepisce come estraneità» (3) . Non che Sofocle tratteggi una Antigone dubitativa, socratica e volta al compromesso, anzi lei è quasi una “fondamentalista” della pietas , ma il testo greco lascia una sensazione e di vittoria e di perdita da parte di entrambe le posizioni. In Sofocle, Creonte e Antigone «hanno entrambi torto; Antigone perché di fatto trasgredisce la legge, Creonte perché di fatto offende la pietà» (4) . Questa sensazione di perdita e di vittoria in Brecht e nella Cavani non è presente: Antigone è la vittima mentre il Primo Ministro e lo Stato sono i carnefici, i tiranni. La scena finale de I cannibali piuttosto che aprire un barlume di speranza nella dialettica leggi morali/leggi di Stato sembra configurarsi come una ipotesi sognata, senza sconvolgere i due emisferi: l'uno resta tiranno, l'altro vittima. In ogni caso, al di là della inane diatriba sulla aderenza e sulla “disobbedienza” al testo, l'unicità de I cannibali sta nel ritradurre un mito attraverso una situazione mitica: partendo dal mito greco di Antigone si rifonda un nuovo mito, attraverso un processo di “mito in progress”. La Cavani decide di non aderire al tempo cronologico e ad una collocazione storica ben precisa, e benché le vicende narrate nel film, la rivolta e la conseguente azione reazionaria delle Istituzioni, siano presto avvicinabili con i fatti del '68, la Cavani si è tenuta ben lontana dalla collocazione spazio-temporale veritiera e cronachistica. È caratteristica del mito l'essere senza tempo. Il mito, essendo un paradigma, una storia esemplare, che non vale per sé, non è “presentazionale”, ma “rappresenta” molteplici situazioni con una storia emblematica. Non la cronaca di fatti cronologicamente individuabili e tanto meno la verità. La città-stato futuribile non è Milano, la rivolta non è quella del Maggio francese, la dittatura non è quella del Portogallo. La situazione emblematica che il film rappresenta è quella di una dittatura feroce in una città occidentale che fa i conti con una rivolta. Il personaggio di Antigone è l'emblema universale di chi sfida i regimi totalitari in nome di una pietas e di una legge morale che abbraccia tutti gli uomini oppressi sentiti come fratelli. Il mito, distante dai tratti dell 'hic et nunc rappresenta situazioni valide in ogni tempo, in ogni luogo. Il cinema della Cavani «si svolge fuori della storia senza privarsi di una storia, si spinge fuori del tempo senza rinunciare a un suo tempo, si isola nel divenire storico senza però abdicare a un suo divenire e a un suo evolversi» (5) .

 

La storia

Un uomo, Tiresia, “sorge” dalle acque del mare, e svegliato dagli scherzi di bambini si ritroverà ad assistere da “spettatore” alla fucilazione gratuita di questi da parte di ignoti cacciatori. In una città-stato occidentale e futuribile, assediata dai militari, c'è stata una rivolta, repressa dalle Istituzioni. Le autorità hanno imposto che i corpi deidissidenti uccisi vengano lasciati senza sepoltura lungo le strade, pena la morte, come monito alla cittadinanza, al fine di educare e dissuadere dal commettere ulteriori tentativi di insurrezione. La giovane borghese Antigone decide, sfidando le leggi dello Stato, di dare degna sepoltura al cadavere del fratello contestatore. Sconsigliata dalla sorella Ismene, dal suo fidanzato Emone, figlio del Primo Ministro, e dalla famiglia stessa, Antigone sarà aiutata solamente da Tiresia, il giovane venuto dal mare e che parla una lingua incomprensibile. I due seppelliranno il fratello di Antigone e a mano a mano tutti i corpi dei giovani morti. La loro attività viene presto denunciata dalla popolazione alle autorità militari che inseguiranno i due per la città e infine li cattureranno. Antigone verrà interrogata dalla polizia e rilasciata solo dopo estenuanti torture, al fine di scovare i sicuri suoi complici eversivi. Tiresia, invece, verrà catturato dalla televisione e verrà “imprigionato” in uno studio televisivo per dare spettacolo, come in un circo, della sua diversità. Successivamente Tiresia verrà rinchiuso in un istituto di igiene mentale. I due, rilasciati, verranno uccisi in piazza davanti ad una folla accorsa e davanti agli occhi compiaciuti degli esponenti dello Stato. Alcuni dei ragazzi dell'istituto neuro-psichiatrico, dove era stato Tiresia, messi in libertà, scenderanno nelle strade raccogliendo i cadaveri per dare loro degna sepoltura.

 

Il linguaggio mitico

«È inutile proprio non riesco a capirti», Emone, I cannibali

Ne I cannibali vi è un interessante lavoro sulle modalità di linguaggio e sul valore della comunicazione. Pur partecipando ad un clima culturale di rinnovamento, che nel campo linguistico condurrà ad interessanti risultati in seno alla semiotica, la Cavani intraprende una strada poco battuta, non d'avanguardia, ma sicuramente originale; dal mito greco rifonda un nuovo mito attraverso un linguaggio mitico. «Basandomi su Antigone ne I cannibali , ho voluto servirmi del linguaggio del mito e dei simboli universali per non utilizzare il discorso contestatario che era già un prodotto di consumo nel 1969-70.» (6) La contestazione del '68 di far implodere i basamenti della comunicazione tradizionale con le sue parole d'ordine e con le sue chiavi precostituite di accesso al significato, determinato in modo inequivocabile, purtroppo non ha prodotto che dei cliché linguistici, altrettanto convenzionali e “di consumo” quanto la comunicazione contestata. Pasolini nelle sue lucide analisi sulla società e sul '68 accusava la contestazione di conformismo e di convenzionalità e chiariva che ogni sistema ha il potere di assimilare e di integrare al suo interno ogni possibile diversità, e che la contestazione, con il suo linguaggio fatto di slogan e di cliché, desiderava nel profondo uniformarsi ed approdare ad una codificazione convenzionale riconosciuta e riconoscibile, integrata al sistema stesso. A causa delle potenzialità del sistema, predisposto ad assimilare ogni diversità, e a causa dell'attrazione che la diversità stessa dimostrava nei confronti del sistema, si era giunti ad una codificazione linguistica maggiore, e quindi peggiore, di quella contestata. Questo fenomeno Pasolini lo riconduceva ad un «desiderio di essere mangiati» (7) , ovvero ad una volontà di opporsi e di ricusare l'elemento da cui, in realtà, si vuole esser schiacciati. Nelle parole del padre di Emone ritroviamo questo concetto: «Voi avete bisogno di noi perché su di noi riversate la vostra carica rivoluzionaria, e noi abbiamo bisogno di voi, dei vostri capricci e dei vostri esibizionismi. Un potere senza i suoi enfants terribles è un potere incivile, e destinato a perire». Lontana dal linguaggio “contestatario” e ormai “di consumo”, Liliana Cavani decide di abbandonare il linguaggio verbale, che di per sé esprime un compromesso, per cimentarsi in un linguaggio non codificato, puro e semplice, mitico. Scrive Tiso che «il silenzio di Tiresia-Clementi è un segno del suo rifiuto di dialogare col Potere per non esserne assorbito» (8) . Al linguaggio verbale inutile e superfluo, mediato dalle strutture del sistema e quindi già “compromesso”, si contrappone un attraversamento linguistico che non accetta intercessioni e che si esprime tramite segni non verbali, la mimica ed il linguaggio dei gesti. Si stabilisce così un “sentire”, puro e vergine, che determina tra le persone quel trait d'union che si richiede alla comunicazione. D'altronde sopra il silenzio dei morti nelle strade e l'indifferenza muta dei vivi non può trovar spazio parola che non sia ipocrita, convenzionale o codificata. Quindi in un «momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato), il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza» (9) . Nel suo intento di “reinventare” il mito, la Cavani utilizza un linguaggio mitologico, vergine, esente dagli orpelli e dai lustrini della convenzionalità. Se nel mito la storia raccontata viene spogliata di fatti cronachistici e di descrizioni annalistiche, attraverso immagini di spazi e di tempi a sé stanti, quasi fossero ricordi di una “memoria involontaria”, il linguaggio mitologico, uscendo dalla quotidianità e dall'uso funzionale-strumentale, si caratterizza analogamente per crudezza e nudità originarie. «Il linguaggio del mito diventa mito del linguaggio. E in questo realizzarsi, la sua opera così come toglie al mito il romanzesco e il leggendario, l'agiografico e il favolistico, riduce anche la “storia”, la trama, il racconto, il romanzesco e il leggendario alla struttura stessa di ciascun film, riportando il cinema alla sua originaria capacità documentaristica e realistica» (10) . Tiresia, l'uomo venuto dal mare, è l'emblema dell'uomo nuovo, che si esprime attraverso un linguaggio universale: egli non conosce le codificazioni, le parole d'ordine o i cliché alla base della comunicazione verbale. L'incontro con Antigone sarà sin da subito caratterizzato da gesti e simboli non conosciuti, ma “riconosciuti” istantaneamente, condivisi e compresi da entrambi: i due non parlano la stessa lingua ma si capiscono senza parlare, al contrario di Emone. Il loro è un incontro puro, in cui ognuno si esprime con un linguaggio diverso dal verbale a cui l'altro non è stato “iniziato”. I due si fanno spazio tra i codici per iniziare a sentirsi, a vedersi, ad agire. È come se ogni volta si cominciasse a parlare una nuova lingua, perché i loro modi di comunicare variano di continuo e non si sedimentano mai come traguardi raggiunti in seno ad un nuovo sistema. La risposta al linguaggio convenzionale e a quello contestatario “di consumo”, che la Cavani propone, sta nel linguaggio della vita, corporale, empatico, un linguaggio nomade, in continua migrazione. Piuttosto che una forma, o un codice strutturato, il linguaggio di Antigone e di Tiresia è come un vettore energetico, un processo, una captazione di forze, sempre mutevole. È il linguaggio della realtà, l' Ur-codice di cui parlava Pasolini, la comunicazione arcaica dei corpi e dei gesti che è insita nella natura dell'uomo e che si può tradurre, manon bloccare, con una macchina da presa nella «lingua scritta della realtà» (11) : è l'identificazione del cinema con la vita, che ne I cannibali raggiunge un'elevata simbiosi. La scrittura con le immagini capta le forze liberate dai personaggi, dagli spazi e dalla messa in scena per liberare a sua volte altre forze; il film vive concretamente di un linguaggio reale, arcaico (perché primordiale), valido tra tutti gli uomini disposti empaticamente a recepirlo. Siamo di fronte in questo caso ad un “campo semantico emozionale” scevro da interpretazioni logiche univoche. Non veicolato dalle parole, il senso assume aspetti molteplici, validi per riqualificazioni e per reinterpretazioni. Accade che l'energetica del senso, anziché bloccarsi nel caso in cui si incontri un significante unitario ed univoco, che non ammette variazioni polisemiche, resti sempre come “ciò che sfugge”. In questo modo esprimere il senso con significanti che a loro volta sono portatori di nuovi sensi e che necessitano di nuovi significanti per essere espressi, comporta un processo di proliferazione illimitata di senso e di significanti, un'esplosione comunicativa ma anche un processo di regressione, come lo definisce Deleuze (12) .

 

Note

(1) - C. Tiso, Liliana Cavani , Firenze, La Nuova Italia, 1975.

(2) - A. Moravia, Al cinema , Milano, Bompiani, 1975.

(3) - C. Tiso, op. cit .

(4) - M.G. Ciani, Antigone: variazioni sul mito. Sofocle, Anouhil, Brecht , Venezia, Marsilio, 2000.

(5) - C. Tiso, Liliana Cavani , Firenze, La Nuova Italia, 1975.

(6) - Liliana Cavani, in «Ecran ‘74» , giugno, n. 26.

(7) - P.P. Pasolini, La paura di essere mangiati , in G.C. Ferretti (a cura di), Il Caos. L'orrendo universo del consumo e del potere , Roma, Editori Riuniti, 1995.

(8) - C. Tiso, Liliana Cavani, op. cit .

(9) - P.P. Pasolini, Scritti corsari , Milano, Garzanti, 2007.

(10) - C. Tiso, Liliana Cavani, op. cit .

(11) - P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972

(12) - G. Deleuze, Logica del senso , Milano, Feltrinelli, 2005.

     

Liliana Cavani: l'immagine che stride

di Amanda Rebecca Snyder

 

Introduzione

Il cinema di Liliana Cavani «non offre acquisizioni sicure ma propone piuttosto degli interrogativi. Esso è volto più a dividere che a suscitare consensi, a problematizzare la riflessione, la considerazione critica» (1) . La criticità che emerge dalle pieghe del suo cinema deriva prima di tutto dallo sguardo libero, spontaneo e demistificatore della regista, votato a «guardare alla realtà senza i manicheismi imposti dal dualismo ideologico con le sue formule aprioristiche di interpretazione della realtà» (2) . Nelle pagine seguenti si è tentato di evidenziare come la libertà di tale sguardo derivi dalla capacità di sfruttare le due opposte possibilità presenti nella pratica cinematografica, quella dell'attestazione di verità dovuta alla natura indicale del mezzo, e quella dell'invenzione artificiosa favorita in primis dal montaggio delle immagini. Il cinema della Cavani è volto all'emersione della natura ambigua e polisemica dell'immagine filmica-fotografica in quanto traccia del reale: lo spettatore corre spesso il rischio di cadere nella trappola cortocircuitante, predisposta dalla regista con rigore, che lo disorienta tanto da renderlo incapace di distinguere la realtà dalla finzione. Funzionale alla promozione di tale effetto è l'uso “spregiudicato” di alcuni dettagli attinti dal repertorio delle immagini horror in un film come La pelle , in cui sono stati individuati tre momenti privilegiati di fruizione “estrema” dell'immagine. La regista preme il “pedale” iperrealista anche in Francesco , il secondo film sul santo di Assisi interpretato da Mickey Rourke. Una lettura dell'opera volta ad encomiare la performance della star americana, per quanto possa risultare convincente, può dimostrarsi fuorviante per il riconoscimento d'alcuni aspetti del film la cui soggiacente intenzionalità può ritenersi davvero eversiva. Questo convincimento nasce dalla caparbietà con cui la regista insistette sulla necessità che Francesco d'Assisi fosse interpretato dall'attore americano: «Al produttore non ho lasciato alternative: niente Rourke, niente Francesco» (3) . La nostra proposta interpretativa s'incardina sull'operazione di liberazione da un'immagine-feticcio che la Cavani avrebbe effettuato sull'immagine-corpo di Mickey Rourke.In altre parole la regista avrebbe insistito sulla scelta di Rourke per abbattere l'icona del sex-symbol al fine di liberare il carisma e la spontaneità di un attore di cui ella intravedeva le grandi potenzialità: «Lui ha molta più fede nel mestiere dell'attore di quanto lasci capire» (4) . Anche in quest'ultimo caso ciò che preme sottolineare è la forte ambivalenza dell'immagine, “contesa” dalle logiche dello star-system da una parte, e dalle esigenze diegetiche interne al film dall'altra. La mise en abîme è, dunque, una delle cifre del cinema di Liliana Cavani in quanto nei suoi film niente è quello che dovrebbe essere, niente è quello che a noi sembra. A proposito del film Milarepa , l'autrice invita a considerarlo come «un viaggio nel labirinto», cioè un mito che «puoi ripetere mille volte perché ogni volta torni indietro con qualcosa di differente dentro di te» (5) . Nell'analisi dedicata a Milarepa si è tentata una lettura originale del film, a partire da un'altra componente che caratterizza alcune opere della regista, ovvero la naïveté delle scelte registiche, che rimandano all'archeologia del cinema, al candore e alla semplicità delle origini; elementi che descrivono lo stesso percorso di formazione dell'asceta tibetano. Dal cinema delle origini la regista mutua anche l'aspetto spettacolare, la fondamentale ed originaria componente della meraviglia e del divertimento: assistiamo nel film a veri e propri prodigi che fanno subito pensare alle magie cinematografiche praticate dai registi “primitivi” che entusiasmavano il pubblico grazie agli effetti speciali, alle dissolvenze e a tutto il repertorio dei trucchi d'illusione attraverso cui si cercava di riprodurre la dimensione onirica o creare funambolici viaggi immaginari. L'entusiasmo della Cavani per certe soluzioni deriva da un sentimento religioso di totale apertura e sperimentazione che Pier Paolo Pasolini colse con la sensibilità e l'intelligenza che gli erano proprie: «la Geometria che sintetizza tutti i punti di vista possibili della vita (vissuta e vista vivere) di Milarepa ha, come dire, tecnicamente, i caratteri della visione religiosa del reale, che è appunto sempre polivalente e onnicomprensiva» (6) . In conclusione, attraverso l'analisi dei tre film succitati, ovvero Milarepa , La pelle e Francesco , si contempleranno alcuni aspetti del cinema cavaniano che, dal candore naïf alla crudezza più esasperata, descrivono lo statuto dell'immagine in quanto elemento fortemente ambivalente, cangiante, anzi appositamente predisposto ad evitare quel processo di disambiguazione tipico di ogni atto di simbolizzazione. Così Milarepa , in ragione della propria struttura mitica, diventa passibile di sempre nuove letture; La pelle diviene l'exemplum più raffinato dell'ambiguità tra realtà e finzione che si traduce nello stridore, nell'oscenità e nella non-dicibilità dell'immagine; Francesco è il luogo critico di un'immagine contesa tra il proprio “statuto” di feticcio pubblico e le esigenze “interne” della diegesi.

 

Milarepa (1973)

Milarepa , film girato dalla regista carpigiana nel 1973, è l'opera che, forse più d'ogni altra, contiene in sé quella componente di naïveté che caratterizza parte della sua produzione e del suo approccio al cinema, a volte ammantato di un candore e di una semplicità disarmanti, che spesso però trovano ragione nello spirito libero, spontaneo e audace della Cavani, come si evince dalle sue dichiarazioni: «Secondo me è importante fare quanto si desidera, non arrendendosi all'idea che sia impossibile» (7) , e ancora: «Mi sono abituata a pensare che le cose impossibili sono meno impossibili di quanto si pensi» (8) . Insomma lo spirito pionieristico della regista è ciò che la sostiene nelle sfide più difficili ed è lo stesso, d'altra parte, che in alcuni frangenti la conduce a soluzioni tanto (apparentemente) ingenue da destare una grandissima commozione. L'amore per il cinema e la fede che in esso ripone sono il motore di quello slancio entusiastico che trapela in modo eccezionale in Milarepa : «Il cinema è la maniera in cui i miei pensieri prendono forma. Se i fratelli Lumière non ci avessero dato il cinema, io sarei stata condannata a non esprimermi e sarei infelicissima oppure in un manicomio» (9). Quest'ultima citazione ci permette di inoltrarci più a fondo nella trattazione osservando che proprio in Milarepa si possono individuare diverse soluzioni registiche che all'archeologia del cinema sembrano ispirarsi e modellarsi: i Lumière, Méliès, il cinema comico americano e le stesse avanguardie russe affiorano come muti ispiratori nella costruzione di alcune scene e sequenze. Ora, questo rifarsi all'ingenuità e freschezza del cinema delle origini, trova la sua controparte nella stessa filosofia alla base del percorso di saggezza intrapreso dal protagonista. Il “candore” del cinema delle origini rispecchia l'apparente semplicità della filosofia orientale: è necessario regredire in se stessi per ritrovarsi. Milarepa è il racconto di un viaggio immaginario nelle terre del Tibet di uno studente universitario, Leo, che si identifica nell'asceta tibetano dell'undicesimo secolo Milarepa. Essendo un racconto del tutto immaginato, i luoghi in cui si svolgono i fatti non sono quelli autentici ma ricostruiti dalla coscienza del protagonista che nel film si identificano con le montagne brulle dell'Abruzzo. Anche gli abiti non sono filologicamente attendibili ma frutto dell'immaginazione così come la lingua parlata dai discepoli, un italiano contaminato da un accento straniero. Ciò che accomuna tutte queste istanze è un'idea di esotismo, non fisicamente esperito ma mentalmente immaginato. Dice bene Ciriaco Tiso quando sottolinea che «Milarepa è l'affermazione dei valori dell'immaginazione, la dichiarazione della felicità del narrare e dell'inventare evitando la fantasia sfrenata; è l'immaginazione che supera il realismo, ma che da esso nasce» (10) . Come non trasporre questo pensiero e il viaggio di Milarepa al cinema delle origini e, perché no, a Le Voyage dans la Lune di Méliès in cui l'immaginazione di un luogo esotico costruito attraverso delle scenografie dipinte fonda il proprio realismo a partire dalla natura indicale del mezzo cinematografico? In secondo luogo Leo, avendo letto e tradotto il libro Rechung-Milarepa , si immedesima nell'asceta Milarepa e ugualmente proietta «la propria madre come madre di Milarepa, la sorellina come sorellina del mistico, il suo professore e la moglie come il saggio Marpa e signora. Trasporta insomma tutto il proprio mondo nella vicenda del mistico tibetano» (11) . Questo viaggio di continue andate e ritorni tra realtà e immaginazione presenta una geometria cristallina e una corrispondenza perfetta tra i vari personaggi ed elementi del film che Pier Paolo Pasolini elogiò in un intervento assai noto (12) . E d'altra parte questa stessa corrispondenza degli elementi è costruita su di un rigoroso e omogeneo montaggio cinematografico che, alternando le serie spazio-temporali in maniera manifesta ma senza cedere alla macchinosità, si fa garante del funambolico viaggio rendendo apertamente omaggio alle sperimentazioni degli stessi formalisti russi che, attraverso il montaggio, si dilettavano ad unire parti del mondo molto distanti tra loro dando vivo sfogo all'immaginazione. Per Liliana Cavani il cinema è magia, e ce lo dimostra apertamente allorché Milarepa, su richiesta della madre, apprende la magia nera per vendicarsi dei famigliari che hanno spogliato la sua famiglia di ogni bene dopo la morte del padre. Milarepa si avvia, così, verso la strada della liberazione che gli consentirà di «vedere senza occhi, toccare senza mani, giungere senza camminare»; queste parole riassumono la natura e le potenzialità del mezzo cinematografico che, attraverso il montaggio e in virtù della propria ontologia, permette di solcare distanze spazio-temporali altrimenti incolmabili e provocare fenomeni incommensurabili. È grazie al cinema che Milarepa, con un semplice gesto della mano, è in grado di far crollare una casa intera o seminare morte e distruzione in un villaggio di contadini, il cui “prodigio” egli potrà verificare accompagnato dall'andamento traballante della cinepresa che “simula” un taglio delle riprese in stile reportage . Una delle scene più commoventi è la resurrezione dei pesci, animali sacri, ad opera di un saggio eremita, il Lama Nyingma, che Milarepa incontra nel suo viaggio. Il Lama è intento ad abbrustolire alcuni pesci da lui pescati per poi consumarli e finalmente donare loro nuova vita: «Come potrei uccidere delle vite se non sapessi resuscitarle?». Attraverso un gioco di dissolvenze le lische dei pesci riacquistano carne e vita attestando il potere di resurrezione del cinema. Tale messaggio è reso esplicito dall'effetto “artigianale” del miracolo e pur tuttavia realistico nel suo cosciente atto di fede. Il concetto di resurrezione è particolarmente congeniale ad un discorso sulla natura ontologica dell'immagine filmica tanto da impegnare lo stesso André Bazin, che alla questione dedicò alcuni capitoli del suo Che cosa è il cinema ? Il critico francese ravvisava nella morte l'istante qualitativo per eccellenza per la sua unicità e metteva in rilievo come la riproducibilità meccanica di tale evento rasentasse l'immoralità (13) . La Cavani sembra avvalorare, attraverso questo piccolo “saggio” cinematografico, la tesi proposta da Bazin sull'ontologia dell'immagine filmica e guardare con entusiasmo al prodigio, pur esimendosi sempre dal filmare la morte (vera) in diretta. Ed infine veniamo all'incontro di Milarepa con Marpa che segna il degno epilogo di una vera e propria apologia del cinema. Tale incontro si pone subito all'insegna di un rapporto di sudditanza rispetto al maestro che non ha nessuna intenzione di iniziare immediatamente il discepolo alla dottrina. Prima egli dovrà, attraverso mille fatiche e prostrazioni, depurarsi dal karma negativo. Così Milarepa verrà sottoposto ad una serie di torture fisiche e psicologiche, tra le quali quelle che contemplano la costruzione di una torre, che egli ricostruirà per ben tre volte a causa dell'apparente volubilità del maestro. Ebbene, al di là della serietà intrinseca dell'evento, esso si tinge di note tragicomiche, di un'ironia che «sembra una simpatica trovata per evidenziare tutta l'abnegazione su cui deve far leva Milarepa-Leo, per completare il suo percorso di formazione» (14) . In realtà questa «simpatica trovata», nella sua struttura sintattica, ricorda molto da vicino certe soluzioni del grande cinema comico quale quello di un Charlie Chaplin o di un Buster Keaton, in cui la comicità deriva dalla ripetizione differente di un unico sintagma figurativo o narrativo. Le gag si distinguono spesso per l'ossessiva ripetitività di una serie di situazioni e per la loro propensione a tendere verso una conclusione catastrofica. Così come avviene per Milarepa che rischia di morire di stenti per realizzare una torre apparentemente inutile. Oppure si pensi alle potenzialità comiche dell'io arbitrario, lirico e imprevedibile di Chaplin e lo si accosti all'arbitrarietà delle direttive e delle osservazioni di Marpa che si rivolge allo spossato Mila vanificando il suo lavoro: «Demolisci la torre, il posto non è buono. Costruisci là al nord. Se non ti piacciono le mie idee vattene», oppure «Tuttosommato adesso la preferisco quadrata», e ancora: «Ragazzo, con quel rumore disturbi la nostra lettura. Fai piano!» ed infine: «Chi ti ha aiutato a mettere quella pietra lì? Le pietre di questa casa devi metterle tu con le tue mani. Toglila». Inoltre l'interpretazione di Paolo Bonacelli nel ruolo di Marpa invita ad una lettura anche divertita dell'episodio. Insomma, il percorso di formazione di Milarepa offre l'occasione per una tragicomicità di grande respiro.

 

Note

(1) - S. Borelli, «Fare cinema come ricerca di orientamento» in Il cinema di Liliana Cavani: atti del convegno: Carpi 25 febbraio-3 marzo 1990 , a cura di Primo Goldoni, Casalecchio di Reno, Grafis, 1993, pp. 51 e 54.

(2) - G. Bozza, «Il senso della storia per vivere il presente» in Liliana Cavani. Lo sguardo e il labirinto, Associazione Fondo Liliana Cavani, 2003, p. 11.

(3) - Intervista a cura di Bruno Blasi in «Panorama», 23 marzo 1989.

(4) - Ibidem .

(5) - Dichiarazione di Liliana Cavaniraccolta da R.F. in «La Fiera Letteraria », 10 marzo 1974 e riportata ne Lo sguardo libero , a cura di P. Tallarigo e L. Gasparini, Firenze, La Casa Usher, 1990, p. 66.

(6) - P.P. Pasolini, in «Cinema Nuovo», n. 229, maggio-giugno 1974.

(7) - Intervista con Lietta Tornabuoni riportata ne Lo sguardo libero , a cura di P. Tallarigo e L. Gasparini, Firenze, La Casa Usher, 1990, p. 13.

(8) - Ibidem, p. 14.

(9) - Intervista con Liliana Cavani a cura di Ciriaco Tiso riportata in Liliana Cavani , Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 2.

(10) - C. Tiso, Liliana Cavani, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 86-87.

(11) - F. Buscemi, Invito al cinema di Liliana Cavani, Milano, Mursia, 1996, p. 65.

(12) - P.P. Pasolini, in «Cinema Nuovo», n. 229, maggio-giugno 1974.

(13) - A. Bazin, «Morte ogni pomeriggio» in Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1999, pp. 31-32.

(14) - F. Buscemi, Invito al cinema di Liliana Cavani, Milano, Mursia, 1996, p. 68.